giovedì 15 novembre 2018

GABRIEL GARCIA MARQUEZ - Cent'anni di Solitudine


DOVE: A Macondo, minuscolo e afoso villaggio sudamericano
QUANDO: a cavallo di un secolo, in un tempo non specificato tra la fine dell'800 e il '900



Parlando dell biografia di Frida Kahlo, più o meno un anno fa, ho scritto di come ci siano libri, per me, legati indissolubilmente ad eventi della mia vita, e di come quello sarebbe rimasto impresso della mia memoria come il libro che stavo leggendo quando ho scoperto di essere incinta prima, e che avrei avuto una bimba poi.
Ecco, allo stesso modo Cent'Anni di Solitudine di Gabriel Garcia Marquez - che avevo a dire la verità già letto anni fa, durante l'università - resterà il libro che mi ha accompagnato durante il travaglio.
Questa foto l'ho scattata a qualche ora dall'inizio dell'induzione, quando ero sola in ospedale con i primi doloretti e ingannavo il tempo cercando di concentrarmi sulla lettura. Era una sera di luglio calda e appiccicosa, perfetta per entrare nello spirito e nel clima di Macondo.
La trama è complessa, i personaggi sono tanti e intrecciati da parentele intricate, ma il viaggio è davvero impagabile (non a caso quest'opera valse al suo autore il Premio Nobel nel lontano 1982).
Dunque, Macondo e i Buendia. Il primo, uno sperduto villaggio nato per caso, per l'ostinata impenetrabilità delle foreste e delle paludi sudamericane che impedirono ai sognanti viaggiatori di giungere, come speravano, sulla costa. I secondi, una articolata famiglia che con la storia di Macondo è strettamente intrecciata fin dalla sua fondazione, una famiglia in cui le figure di spicco sono perlopiù le donne, dominate dalla tenacia e dalla passione, ciascuna con le proprie sfaccettature, mentre gli uomini, rimasti negli anni ancorati ad una bizzarra tradizione di battezzarli con i nomi di Josè Arcadio o Aureliano - o piccole variazioni sul tema - sembrano restare appesi non solo ad essi, ma anche ad alcuni stereotipati destini che ciclicamente sembrano condannarli all'isolamento mentale o fisico, alla rassegnazione, alla sconfitta.
Per comodità, a chi volesse partire per questo straordinario e lungo viaggio, consiglio di tenere a portata di mano una piccola guida genealogica alla famiglia Buendia, sul tipo di questa:

fonte: http://anna-lotus.tumblr.com/post/27555084597/albero-genealogico-famiglia-buendia-centanni-di

perchè facilmente si smarrisce la via, tra i contorti intrecci di passioni che sbocciano sotto il sole gocciolante di Macondo, e gli altrettanto contorti tentativi di nascondere - talora - le reali parentele per salvaguardare le convenzioni sociali. 
Albero genealogico alla mano, immergiamoci dunque in questo mondo afoso, umido, di case dalle porte spalancate per far circolare il vento sottile durante la siesta, di notti stellate e piene di passioni, di febbri divoranti, di piogge torrenziali che oscurano il villaggio per settimane, un piccolo microcosmo isolato dalla civiltà che, neanche tanto lontano, in quei lontani anni silenziosamente progredisce, e che a Macondo non arriva se non di striscio, portando con sè probabilmente tutto ciò che di peggio ha da offrire, a cominciare dai gringos che impiantano una fiorente industria bananiera retta sulle spalle degli operai locali, per passare alla sanguinosa repressione delle rivolte sociali, ed alla guerra.
Malgrado tutto, malgrado dunque il mondo insinui di tanto in tanto i suoi tentacoli di modernità fin nelle polverose strade di Macondo, richiedendo per esempio ai suoi allibiti abitanti di dipingere di azzurro le facciate delle abitazioni in ossequio ad una festa nazionale della quale questi ignorano perfino l'esistenza, o portando assieme ad una pianola - la prima che si fosse mai vista a Macondo, orgoglio di casa Buendia , un azzimato ed impeccabile professore di musica dai pantaloni attillati, presto divenuto scintilla di passioni ed ostilità mai sopite negli anni a venire, malgrado tutto ciò, dunque, nulla sembra mutare.
A tutte le bizzarrie del progresso, all'autorità del governo centrale, perfino alla guerra, Macondo resiste con sonnolenta pacatezza, con rassegnata noncuranza, lasciando correre ciò che deve correre e restando un piccolo universo a sè, orbitante intorno alle vicende straordinarie e sempre in bilico tra reale e irreale, della folta famiglia Buendia. 
A cominciare da Ursula, perno della casa e della famiglia, una donna tosta, fondatrice della città ed amministratrice instancabile della famiglia e della casa per oltre cento anni, oltre che ideatrice di una fiorente fabbrica di animaletti di caramello, unica industria nata sul suolo di Macondo prima dell'avvento dei gringos sudaticci. Dopo di lei, una fitta schiera di donne dalla bellezza sconvolgente, alcune sue dirette discendenti, altre prese sotto la sua ala protettrice ma tutte accomunate da un fascino quasi stregato, da personalità spesso bizzarre, dalla capacità di tenersi ostinatamente attaccate alle passioni che ardono loro nel petto. E, accanto ad esse, gli uomini, con le loro piccole fissazioni maniacali, con la loro passione per i prodigi portati in città dalle carovane di zingari, con la loro capacità di amare appassionatamente le donne più belle, conquistandole anche quando sembrano irragiungibili, con la loro solitudine atavica, con il dolore che si portano appresso come un karma. 
Tra suggestive atmosfere tropicali, tra spettri che aleggiano per secoli incatenati nel cortile di casa, tra morbide canzoni malinconiche cantate nelle notti umide dagli schiavi caraibici trapiantati a Macondo affinchè lavorino per i gringos, tra le cruente lotte intestine fra le donne della famiglia, ed i segreti che alcune di esse celano negli anni, in Cent'Anni di Solitudine si attraversa un secolo di vita surreale, poetica, evocativa.
Come in L'Amore ai Tempi del Colera, tutto pare sospeso in una bolla fuori dal tempo, che talvolta sfiora il mondo reale per poi riprendere il volo verso quello impalpabile delle leggende, degli spiriti, delle superstizioni. Manco a dirlo, un capolavoro.

UN ASSAGGIO:

" Jose Arcadio Buendia ci mise parecchio a rimettersi dalla perplessità quando uscì in strada e vide la folla. Non erano zingari, Erano uomini e donne come loro, coi capelli sciolti e la pelle scura, che parlavano nella loro stessa lingua e si lamentavano degli stessi dolori. Avevano mule cariche di cose da mangiare, carrette da buoi con mobili e utensili domestici, puri e semplici accessori terrestri messi in vendita senza smancerie dagli imbonitori della realtà quotidiana. Venivano dall'altra parte della palude, a due soli giorni di viaggio, dove c'erano villaggi che ricevevano la posta tutti i mesi e conoscevano le macchine del benessere. Ursula non aveva raggiunto gli zingari, ma aveva trovato la strada che suo marito non aveva potuto scoprire nella sua vana ricerca delle grandi invenzioni.