mercoledì 26 gennaio 2011

ALESSANDRO BARICCO - Questa storia


DOVE: in un paesaggio rurale del Nord Italia
QUANDO: inizio del Ventesimo secolo.

Ultimo Parri è uno di quei personaggi che ti restano dentro. Con l'ingenuità e la testardaggine che solo un bambino può avere, s'innamora del nascente mondo dei motori, sentendo che è proprio lì che la sua vita deve essere diretta, verso la ricerca di un circuito perfetto che racchiuda in sè - nelle sue curve e i suoi rettilinei - tutta la sua stessa vita.
Un progetto bizzarro, nato nell'anima di un ragazzino che porta il nome che porta in ricordo del giorno in cui era nato ("Ultimo si chiamava così perchè era il primo figlio. 'E Ultimo' aveva subito precisato sua madre, appena ripresi i senso dopo il parto") e perseguito con tutto il suo cuore, a dispetto della Prima Guerra Mondiale, dello scetticismo di chi non lo capisce, delle difficoltà economiche che lo portano, proprio per coronare questo sogno, a trasportare e montrare pianoforti. Un libro che racchiude in sè una moltitudine di storie, quella di un padre e un figlio che condividono la passione per i motori, quella della Disfatta di Caporetto, quella di una giovane e bella nobile fuggita dalla Russia rivoluzionaria e ridotta in miseria - ma viva, questo è l'importante - in un'America che inizia a diventare poliglotta e multietnica. Storie individuali e storie collettive, che come sempre accade si intrecciano secondo il capriccio del destino e del narratore. E, al di sopra di tutte, il sogno caparbio di un uomo che cerca di mettere ordine nella propria vita.
Un romanzo fatto di suoni, che basta tacere per riuscire ad ascoltare: il rombo dei motori che accompagna la meraviglia di chi assiste ai primi straordinari prodigi della meccanica; le urla e il fischio dei proiettili nella trincea, il dolce fluire delle note di un pianoforte. Suoni che accompagnano la vita di un uomo che insegue il proprio sogno - e lo realizza.

UN ASSAGGIO:

"Era d'altronde proprio ciò che erano andati a cercarsi, ognuno a modo suo, compiendo quel gesto oggi incomprensbile che era stato volere la guerra, e, in molti casi, andare volontariamente alla guerra. Tutti avevano risposto, d'istinto, a una precisa volontà di fuga dall'anemia della loro gioventù - volevano che gli si restituisse la parte migliore di sè. Erano convinti che esistesse, ma che fosse ostaggio di tempi senza poesia. Tempi di mercanti, di capitalismo, di burocrazia - alcuni iniziavano già a dire: di giudei. Loro avevano in mente qualcosa di eroico, e comunque di intenso, e in ogni caso speciale: ma seduti pigramente al caffè vedevano passare i giorni senza altro obbligo che quello di essere disciplinate macchine tra le nuove macchine, in vista di un comune progresso economico e civile. Per questo noi oggi possiamo guardare increduli le foto di quegli uomini che si alzano dal tavolino e abbandonando bicchierini di blandi alcolici corrono all'ufficio di leva, sorridendo all'obiettivo, con la sigaretta ai labbri, e nelle mani, sventolata, la prima pagina di giornali che annunciavano la guerra - una guerra che poi li avrebbe maciullati, nel più orribile e metodico dei modi, con una pazienza che nessuna ferocia bellica, prima, aveva uguagliato. In un certo senso, cercavano l'infinito."