giovedì 29 giugno 2017

MARCELA SERRANO - L'albergo delle donne tristi


DOVE: isola di Chiloè, al largo delle coste Cilene
QUANDO: anni' 90

Chiloè, piccola isola battuta dal vento, al largo delle coste cilene. Il luogo perfetto in cui donne ferite, amareggiate, deluse dall'amore e dalla vita possano trovare tre mesi di quiete e riparo per lenire le ferite dei loro cuori tristi. Ed è proprio qui che Elena - brillante psicologa, anch'essa donna "ferita" in primis - decide di dare vita ad un alloggio, una specie di casa-famiglia in cui queste anime in tempesta possano trovare la serenità dell'animo e ricostruire le loro vite più o meno a brandelli. Le "donne tristi" che trovano rifugio presso il silenzio dell'albergo sono madri, mogli, donne in carriera, casalinghe, più o meno giovani, tutte accomunate dall' avere un cuore in pezzi e il desiderio struggente di riprendere le redini delle proprie vite. Al di là di tutto, al di là di quello che la società esige, al di là delle convenzioni, al di là delle aspettative altrui, queste donne imparano di nuovo a rimettere sè stesse al centro dei loro pensieri, per essere in grado di spiccare di nuovo il volo ed affrontare la vita. Perchè le donne, si sa, hanno riserve di forza inimmaginabili, sempre. Solo che a volte le troppe lacrime, le troppe delusioni, la troppa sensibilità finiscono per fiaccarle. Come Floreana, secondogenita di tre femmine in una famiglia che di figli in totale ne conta cinque, la quale dopo un matrimonio naufragato ed un grave lutto in famiglia si sente vacillare, e sceglie di isolarsi nell'inverno di Chiloè per ritrovare sè stessa con l'aiuto di Elena e delle altre ospiti del suo albergo. Angelina, bellissima e insicura vittima di un matrimonio "sbagliato"; Costanza, brillante economista; Tona, attrice di mezza età oltre che donna d'impeto deciso ed apparentemente inaffondabile. Tutte con le proprie cicatrici, tutte con le proprie insicurezze, tutte in cerca di una ritrovata fiducia nel futuro.
A far da cornice alla loro lenta guarigione spirituale, il mare invernale di Chiloè, il vento impetuoso, la prorompente natura selvaggia di una piccola isola al largo delle coste del Sudamerica, battuta dalle onde tempestose, intrisa dei profumi della terra umida e dell'aria salmastra, con il suo ritmo di vita lento, ben lontano dalla frenetica corsa in tondo delle grandi metropoli.

Per certi versi, un libro che mi ha richiamato alla memoria quello della Pancol letto pochi mesi fa; anche qui una protagonista insicura, poco consapevole del suo essere donna, ripiegata sul suo lavoro di ricercatrice universitaria. Ed anche qui, un lieto fine che personalmente mi fa storcere un po' il naso - come ho scritto nella recensione al libro della Pancol, al momento i lieto fine in stile favola poco mi piacciono, ma il problema è mio e della vita che mi sta rendendo terribilmente cinica, al punto che forse dovrei ritirarmi anche io nel silenzio selvaggio di Chiloè, a riflettere su me stessa.
Nonostante questo mio punto di vista del tutto discutibile e personale, un libro delicato, lento eppure coinvolgente, intriso della forza dirompente della natura tanto che sembra quasi di sentir scrosciare la pioggia irruenta e percepire nelle narici l'armonia profumata della terra bagnata.

Un libro pieno di sensualità, di musica, di tenera e incauta speranza, di cucina speziata, di lentezza.
La storia di una lenta rinascita, perfetta da leggere in riva al mare, col sottofondo delle onde e null'altro. Lo stesso sottofondo che accompagna le fredde notti stellate di Chiloè e la lenta, quieta cicatrizzazione dei cuori feriti.

PS: ci sono libri fortemente musicali, e questo è uno di quelli. Raccomando pertanto, per entrare nello spirito, un sottofondo musicale per la mia recensione....



UN ASSAGGIO:

"Il cimitero del paese, con le sue tombe rivolte verso il mare, indifferente al frangersi sonoro delle onde, si trova a metà strada fra il paese e l'Albergo. Un paesaggio maestoso per umili, definitive dimore. A Floreana è sempre piaciuto avventurarsi nei cimiteri dei posti che visita, convinta che vi si trovino le chiavi per capire i vivi. Si dirige così a questo suo primo appuntamento deviando dalla strada per l'albergo. Per Floreana, da quando abita lì, il pomeriggio comincia tra le quattro e mezza e le cinque. Sono le quattro, c'è ancora tempo.
Alcune lapidi sono adagiate a terra, altre si ergono senza protervia. Non c'è ombra di marmo, ci sono solo lapidi di pietra o di legno grezzo. Avvolgendosi stretta nella sua mantella di lana, Floreana passeggia tra quei nomi sconosciuti con le loro date remote o recenti e i fiori appassiti. I piccoli cimiteri di paese hanno un fascino speciale, pensa, e sceglie un piccolo dosso di sabbia circondato da erba alta per sedersi ad ammirare il mare. Da quel luogo ideale, fissa il profilo del sole.
Avanti, è il momento della predica. Ora che ci pensa, non è passato neanche un mese da quella sera, in quel bar."





mercoledì 28 giugno 2017

DANIEL PENNAC - Abbaiare stanca
















DOVE: tra Parigi e Nizza
QUANDO: nel tempo indefinito delle favole

I bambini, si sa, crescono in fretta. Tu non te ne rendi conto, perchè ti accade quotidianamente, sotto al naso; ma arriva in giorno in cui quel cosino rosa profumato di latte è diventato un ometto dalle ginocchia sbucciate, al quale sei riuscita - e la cosa ti emoziona e commuove insieme - a trasmettere l'amore sconfinato per la lettura. E ti rendi conto di questo quando lui, serio, convinto, "adulto", ti CONSIGLIA un libro. Ecco qui, allora, il primo libro letto perchè raccomandatomi caldamente da mio figlio, lo stesso libro che, qualche mese fa, avevo scelto per lui nella libreria di un centro commerciale, perchè si parlava di amicizia, di cani, di bambini. E perchè, a otto anni, dopo aver incontrato Sepulveda, volevo che conoscesse Pennac.
Dunque, siamo in Francia, una Francia che vediamo attraverso gli occhi - ma sarebbe più opportuno dire che la percepiamo attraverso il naso - di un cane. Nulla di che, un bastardino neanche particolarmente bello, scampato per miracolo alla morte per annegamento ed allevato da una randagia come lui in una discarica di Nizza. La sua è una storia comune, che fa riflettere, sorridere e commuovere; quella di un randagio, cresciuto dall'affettuosa ruvidezza di Muso Nero e finito, dopo una serie di peripezie, in una famiglia non troppo consapevole di cosa voglia dire "avere un cane". Una storia fatta di lacrime, perdite, solitudine, scoperte, rivalse, paura e piccole vendette, la storia di un bastardino a cui la vita mette continuamente i bastoni fra le ruote ma che con la tenacia di chi alla vita  è attaccato coi denti insiste, combatte, insegue il suo lieto fine.
Che, manco a dirlo, è quello di avere una famiglia "umana" che lo ami e che soprattutto abbia rispetto per il suo "essere cane".
Dal lungomare di Nizza, odoroso di salsedine e stridente di gabbiani, fino al cuore di Parigi intriso di migliaia di odori intrecciati tra loro in maniera tanto stretta che solo un naso molto sensibile ed allenato può essere in grado di dipanarli; insieme al cane percorriamo le strade del mondo osservando la vita dal basso, con l'intensità di sentimenti e la positività di un cucciolo di strada. E osserviamo, dall'esterno, le pazzesche vite di noi esseri umani, attenti al superfluo ma poco alla sostanza, distratti, rabbiosi, irrispettosi della vita diversa da quella bipede, orgogliosamente rinchiusi nella routine inquinata delle nostre città, incapaci di percepire la bellezza della vita in una corsa sulla spiaggia umida ad inseguire i gabbiani.

E' una favola, certo. Un libro destinato ai bambini, ma che consiglio di leggere anche a noi adulti, perchè Pennac - oltre ad uno stile inconfondibile, schietto, scorrevole - lascia intendere in queste pagine tutto il suo delicato amore, la sua comprensione, il suo rispetto per il Cane. E, nella Postfazione finale ( "Nè ammaestrato nè ammaestratore", che consiglio vivamente di leggere), lo dichiara senza fronzoli, col cuore in mano, raccontando delle sue esperienze di vita, dei cani che lo hanno accompagnano lungo gli anni, dell'amore che lo ha legato ad essi e di come noi esseri umani dovremmo imparare a capire ed interagire con il cane.
Una favola che si legge in un pomeriggio, e che parla dritta dritta al cuore.

UN ASSAGGIO:

 "La notte era scesa da un pezzo sulla città. Le case avevano ingoiato i loro abitanti. Le automobili si erano addormentate lungo i marciapiedi. Il Cane camminava solo soletto per le strade. Le luci gialle dei lampioni rendevano più cupa la sua ombra. E il Cane pensava 'Se l'avessi saputo, sarei rimasto dal macellaio'.
Gli uomini erano veramente imprevedibili! Con loro, niente andava come ci si aspettava. Anche gli odori si erano addormentati. Giacevano per terra, come sono soliti dormire gli odori, muovendosi appena. L'alito salato del mare vicino si stendeva su di loro come una coperta. Il Cane avanzava come in sogno, zampettando silenzioso. 'Bene' si disse ' ecco il sonno'.
Scelse la conca fiorita più comoda della piazza Garibaldi, si scavò una buchetta fra i gerani, girò sei volte su sè stesso e si acciambellò con un sospiro. 'Ma prima di addormentarmi devo prendere una decisione' Riflettè ancora qualche istante. Da un campanile suonò la mezzanotte sopra la città vecchia.'Bene' decise Il Cane, 'domani torno dal macellaio. Non è una padrona, ma Muso Nero sarebbe certamente d'accordo. E poi, chissà.... Forse è sposato.....' "

domenica 4 giugno 2017

EPICURO - Lettera sulla Felicità / SENECA - La vita felice

DOVE e QUANDO: in un viaggio virtuale attraverso due pilastri della filosofia classica

Non sono mai stata un'appassionata di filosofia, devo premetterlo. Anche al liceo classico, è sempre stata una materia che digerivo con difficoltà, nonostante fossi per il resto una allieva brillante e senza problemi. Negli anni a seguire, difficilmente mi sono accostata di nuovo a questo tipo di libri; probabilmente perchè per me la lettura è sempre stata un modo per allontanarmi, evadere, sognare e come tale sono sempre stata attratta più dalla narrativa che non dalla filosofia.
Nonostante ciò -sarà perchè il mondo classico, vuoi o non vuoi, mi è rimasto nel cuore, sarà perchè in fondo la filosofia classica è stata quella che ho trovato a suo tempo meno "ostica" - quelle poche volte che l'ho fatto, è stato leggendo Seneca.
Mi accosto, dunque, alla filosofia in punta di piedi e con il dovuto rispetto, consapevole che la mia formazione di tipo prettamente chimico-farmacologico non mi consente forse di sviscerarla a fondo, ma consapevole anche del fatto che se loro, duemila anni fa, hanno parlato, lo hanno fatto affinchè ascoltassimo anche noi. E di cose da ascoltare, ne abbiamo eccome, ancora oggi.
Ecco qui, dunque, due autori a confronto - con la preziosissima introduzione di Giuseppe Dino Baldi che prende per mano e guida chi, come me, la filosofia l'ha accantonata da vent'anni - su uno stesso tema: la felicità.
Da un lato Epicuro, filosofo greco vissuto a Samo intorno al 300 a.C.; dall'altro Lucio Anneo Seneca, vissuto a Roma nel primo secolo a.c. Il primo, fondatore della scuola epicurea, il cui pensiero è stato poi in parte "distorto" nei secoli fino a renderlo sinonimo di "amante dei piaceri" in modo quasi amorale; il secondo, padre dello stoicismo e fortemente impegnato anche in politica, impegno che lo porterà al suicidio. Entrambi hanno lasciato in eredità il loro pensiero - per quanto riguarda Epicuro, in forma di frammenti e di massime; per Seneca, in una sorta di "botta e risposta", un dialogo tra il filosofo e un immaginario "oppositore"- che risulta tutt'altro che sepolto, a distanza di duemila anni.
Epicuro ci insegna a cercare la felicità nelle cose semplici, nella natura, nell'allontanarsi dalla bramosa ricerca del piacere, nel non temere la morte, nel "liberarsi dalla prigione degli affari e della politica"; Seneca, dal canto suo, rivede e rielabora la visione di Epicuro (del quale per esempio non può condividere quest'ultima affermazione, essendo lui in primis un personaggio di spicco della politica romana), sottolineando come la felicità derivi  dall'affrancarsi dalla spasmodica ricerca dei beni materiali per porre invece l'attenzione verso la ricerca della virtù e nel godere di piaceri miti, controllati, senza eccessi.
Entrambi continuano a darci interessantissimi spunti di riflessione; ecco dunque un libro assolutamente prezioso per chi non si lasci spaventare dallo stile - inutile mentirci, questo è un testo che richiede una mente aperta, sgombra e concentrata - e voglia addentrarsi nella lettura di un messaggio vecchio di duemila anni.
Mi riservo di dedicare un post un po' più corposo sul tema nell'altro mio blog (http://cartolinedimetedinchiostro.blogspot.it/), non appena avrò un pochino più di tempo per mettermi comoda e dipanare con calma tutti i miei pensieri; per ora questa voleva essere una segnalazione un tantino "diversa" per chi voglia avventurarsi in un viaggio mentale, più che fisico, indietro di duemila anni. Scoprendo che, incredibilmente, le parole di questi due "padri" del pensiero filosofico siano ben più moderne di quanto crediamo.

UN ASSAGGIO:

"Quella considerazione che ci ha incoraggiato a ritenere che nessun male è eterno o durevole per molto tempo è la medesima che ci attesta che in queste condizioni limitate si può far soprattutto affidamento sull'amicizia" EPICURO, Massime sulla felicità, XXVIII

"Nessuno, se vede un male, lo sceglie in quanto tale, ma perchè si inganna valutando che sia un bene rispetto a un male maggiore di quello" EPICURO, Sentenze sulla felicità, 15

"Perchè allora - mi obietta- mi deridi se per te le ricchezze hanno la stessa importanza che hanno per me?" Vuoi sapere in quale misura non hanno la stessa importanza? A me, se le ricchezze dovessero svanire, non porteranno via niente altro che se stesse; tu, invece, rimarrai stordito se esse ti abbandoneranno, e ti sembrerà di essere privato di te stesso. Per me le ricchezze hanno un certo valore, per te il massimo valore; in conclusione, nel mio caso le ricchezze sono mie, nel tuo caso sei tu che appartieni alle ricchezze" SENECA, Lettera sulla felicità, XXII

"Un generale non si fida main della pace, al punto da non prepararsi alla guerra, che, se non è ancora combattuta, è stata però dichiarata; voi invece siete resi insolenti da una bella casa, come se non potesse andare in fiamme o crollare, e perdete la testa per delle ricchezze, quasi fossero al di là di ogni pericolo e tanto grandi che la fortuna non abbia sufficienti forze per distruggerle." SENECA, Lettera sulla felicità, XXVI

giovedì 1 giugno 2017

UMBERTO ECO - Il nome della rosa

DOVE: in una imponente abbazia benedettina del centro italia
QUANDO: agli inizi del 1300

 Quando anni fa ho aperto il blog, ho detto che sarebbe stata un po' una piccola raccolta di "viaggi" virtuali. Leggo per pura e semplice evasione, fin da quando ho scoperto che quelle fredde ed asettiche letterine che tanto avevo faticato ad imparare all'inizio della prima elementare, erano in realtà frammenti d'incanto in grado di dare vita ad una vera magia e trasmettere a distanza nel tempo e nello spazio sentimenti ed emozioni. Di conseguenza, più lontano un libro mi porta, più lo amo.
Stavolta, mi sono concessa un viaggio che ho sempre temuto e rimandato, soprattutto perchè, avendo già visto un paio di volte il film, temevo che sarei rimasta delusa. Siamo nell'anno del Signore 1327, in un'austera, fredda, impenetrabile abbazia benedettina arroccata nel silenzio di un Italia Centrale dilaniata all'epoca da scontri sanguinari che non risparmiano nemmeno gli ordini religiosi. Con lo spettro mminaccioso dell'Inquisizione che aleggia ovunque, con Papa Clemente V trasferitosi ad Avignone e la sede apostolica di Roma rimasta vacante, con due imperatori (Ludovico di Baviera e Federico d'Austria) a contendersi il potere e con l'ordine francescano che rischia di minare dalle radici il potere temporale del papa, rivendicando la povertà come fondamento della dottrina cattolica, correvano tempi oscuri, tra il clamore delle spade, e le silenziose minacce di eresia e scomunica.
E' in quegli anni che un giovane novizio benedettino, Adso da Melk, si trova ad accompagnare in un viaggio attraverso l'Italia il carismatico e dotto Guglielmo da Baskerville, spirito brillante ed ex inquisitore, incaricato di presiedere ad un complicato incontro tra i sostenitori del Papa e quelli dell'Imperatore (Ludovico di Baviera, risultato nel frattempo vincitore ed alleatosi con i francescani vedendo in essi e nella loro contestazione al potere temporale del papa uno spiraglio per aprire una "breccia" in quello stesso, solido potere). E, come se la questione non fosse già di per sè abbastanza delicata, nell'abbazia che li ospita iniziano a verificarsi, una dopo l'altra, una serie di morti sospette che ben presto assumono i chiari contorni di un delitto. Chi o che cosa sta operando nell'oscurità della nebbiosa abbazia, e per quale scopo? Il giovane Adso, testimone ed ingenuo osservatore, seguirà passo passo, con ammirazione il brillante intelletto di Guglielmo da Baskerville mentre dipana filo a filo la questione, il nocciolo della quale ruota intorno all'impenetrabile e sconfinata biblioteca, vanto dell'abbazia stessa.
Immergendosi nel silenzio e nel freddo delle mura omertose dell'abbazia - sembra quasi di percepire, attraverso le pagine del libro, il silenzio che domina incontrastato su quello sperone di roccia, interrotto solo dallo stridere di un rapace e dai canti dei monaci che riecheggiano sotto le volte, scandendo la progressione delle ore - si procede lentamente, a tentoni, insieme a Guglielmo ed al fido Adso, osservando, interrogando, deducendo. Bisogna prepararsi mentalmente a digerire alcune digressioni storiche tanto lunghe e dettagliate quanto necessarie, nonchè una serie di dibattiti di etica e filosofia intricati ma fondamentali per giungere alla sudata conclusione, non senza qualche colpo di scena che spezza il ritmo lento del romanzo - e della vita stessa dell'abbazia, governata da una rigida progressione di celebrazioni e di incarichi "pratici", in ossequio alla regola "ora et labora" che di quell'ordine era ed è tuttora il fulcro.
Un viaggio sconsigliato agli appassionati dei gialli in chiave "moderna" (quelli più di azione, alla Highsmith, per intenderci), ma consigliatissimo a chi voglia lasciarsi andare ad un lento viaggio in un'epoca oscura della nostra storia; doppiamente interessante se pensiamo che, probabilmente, anche quella che stiamo attraversando - ahimè - oggi verrà descritta come un'epoca "oscura".
Come a dire: ne siamo venuti fuori una volta, ne verremo fuori ancora.

UN ASSAGGIO:

"L'essere alle nostre spalle pareva un monaco, anche se la tonaca sudicia e lacera lo faceva assomigliare piuttosto a un vagabondo, e il suo volto non era dissimile da quello dei mostri che avevo appena visto sui capitelli. Non mi è mai accaduto in vita, come invece accade a molti dei miei confratelli, di essere visitato dal diavolo, ma credo che se esso dovesse apparirmi un giorno, incapace per decreto divino di celare appieno la sua natura anche quando volesse farsi simile all'uomo, esso non avrebbe altre fattezze di quelle che mi presentava in  quell'istante il nostro interlocutore. La testa rasata, ma non per penitenza, bensì per l'azione remota di qualche viscido eczema, la fronte bassa, chè se egli avesse avuto capelli sul capo essi si sarebbero confusi con le sopracciglia (che aveva dense e incolte), gli occhi erano rotondi, con le pupille piccole e mobilissime, e lo sguardo non so se innocente o maligno, o forse entrambe le cose, a tratti e in momenti diversi. Il naso non poteva dirsi tale se non perchè un osso si dipartiva dalla metà degli occhi, ma come si staccava dal volto subito ne rientrava, trasformandosi in null'altro che due oscure caverne, narici amplissime e folte di peli. La bocca, unita alle narici da una cicatrice, era ampia e sgraziata, più estesa a destra che a sinistra, e tra il labbro superiore, inesistente, e l'inferiore, prominente e carnoso, emergevano con un ritmo irregolare denti neri e aguzzi come quelli di un cane. "