giovedì 30 dicembre 2010

Ferenc Molnar - I ragazzi della via Pal



DOVE: Budapest, Ungheria
QUANDO: inizi del Ventesimo secolo

Il mio amore per la lettura comincia molto, molto lontano, con i cosiddetti "classici" per ragazzi, forse un tantino fuori moda nell'era di Harry Potter e Geronimo Stilton, eppure a mio parere sempre affascinanti. Prendiamo per esempio, "I ragazzi della via Pal", dell'ungherese Ferenc Molnar, pubblicato agli inizi del secolo scorso; la trama è presto detta: due bande di ragazzi che si affrontano e si scontrano per il possesso di una segheria, improvvisamente trasformata dalla fervida immaginazione infantile in un vero e proprio campo di battaglia. Questo, perlomeno, quello che apparirebbe agli occhi "ciechi" di noi adulti, tutti presi e assorti nella gravità delle nostre occupazioni serie e quotidiane. Incapaci di riconoscere un cappello da un boa che ha inghiottito un elefante, se volessimo rubare una vivacissima ed efficace descrizione data da Antoine de Saint Exupery nel suo celebre "Piccolo Principe". Eppure, la scaramuccia tra le due bande rivali - l'una capitanata dal saggio Boka, l'altra dal focoso Ats - si infiamma e dilaga con la serietà propria dell'infanzia in una vera e propria guerra, nella quale sotto una rigida gerarchia si tessono strategie e si progettano imboscate. E nella quale le personalità differenti dei protagonisti emergono prepotentemente, specchio della società degli adulti che, al di là del muro della segheria, vive la propria realtà indifferente - e ignara - degli eroismi e delle prepotenze che prendono vita tra le cataste di legname.
Perchè, come accade nel Signore delle Mosche di Golding, anche qui l'infanzia serve per aprire gli occhi su noi stessi; anche se il sapore che resta in bocca dopo aver conosciuto i piccoli combattenti di Molnar è decisamente più dolce, capaci come sono di piccoli eroismi, di atti di dignità, di rispetto e disciplina che mai vengono meno, neanche nel mezzo del conflitto.


UN ASSAGGIO:

"Csele si è fermato sotto il portone di un palazzo vicino alla scuola per comprare un po' di torrone, e sta contrattando con il venditore che ha aumentato il prezzo senza alcun apparente motivo. Il pezzetto di torrone che il venditore, servendosi di una piccola accetta, stacca dal grosso blocco cosparso di noccioline, fino al giorno innanzi costava un soldo. Ed anche tutto il resto, sotto quel portone, costava un soldo: le tre prugne candite infilate in uno stecco, i tre mezzi fichi, i tre spicchi di noce, le caramelle d'orzo, il grosso pezzo di liquirizia ed anche il cosiddetto "giardinetto dello studente", un miscuglio, cioè, di noccioline, uva secca, confetti, polvere di strada, carrube in pezzi e mosche. Come si vede, un simile "giardinetto" offriva, con la modica spesa di un soldo, numerosissimi prodotti sia dell'industria sia del regno vegetale e animale.
Csele ora sta contrattando proprio perchè il venditore ha alzato i prezzi. Gli esperti di economia ci insegnano che i prezzi aumentano normalmente per quei generi la cui vendita presenta determinati pericoli. Ad esempio, è caro il tè che le carovane trasportano attraverso l'Asia passando per certe regioni infestate dai banditi: ed è di regola il compratore che finisce per fare le spese di tali rischi.
Per la stessa ragione il venditore di torrone, che corre il rischio di essere allontanato in qualsiasi istante dalle vicinanze della scuola, da buon affarista si rifà anche lui ritoccando i prezzi. Sa benissimo infatti che da un momento all'altro potrebbero proibirgli il suo fiorente commercio, dato che i professori lo considerano dannoso per gli studenti."

mercoledì 22 dicembre 2010

Nikolai Gogol - I racconti di Pietroburgo



DOVE: San Pietroburgo, Russia
QUANDO: metà del diciannovesimo secolo.

Sono di parte; adoro gli scrittori russi. Adoro immergermi nelle loro atmosfere fatte di neve che scricchiola sotto i piedi, thè bollenti custoditi nelle pance dei loro samovar, nuvolette di fiato gelido che sbuffano di sotto i baveri rialzati. C'è qualcosa che mi attrae, nel loro stile, e che mi ha spinto ad archiviare San Pietroburgo tra le città da visitare, un giorno.
Nell'attesa, mi accontento di brevi immersioni in una Russia che non c'è più e che proprio per questo mi affascina profondamente.
Se dovessi consigliare ad un lettore "occasionale" un nome per accostarsi alla letteratura russa non esiterei a rispondere "Nikolaj Gogol". E, subito dopo, gli porgerei questo libro, nel quale in cinque racconti si conciliano le atmosfere nevose della Russia di metà ottocento con un surrealismo dal sapore assolutamente moderno. Quello di Gogol, tanto per capirci, è un mondo in cui l'assessore di collegio Kovalev, una mattina, si sveglia scoprendo con sgomento che il suo naso è svanito nel nulla. Lo stesso naso che il barbiere ubriacone Ivan Jakovlevic ritrova, non sensa disgusto, nella pagnotta con cui si accinge a fare colazione. Lo stesso naso che misteriosamente se ne va poi a zonzo per San Pietroburgo, inseguito dal suo legittimo proprietario.
Ma è anche il mondo in cui il piccolo impiegatuccio Akaki Akakievic si vede rubare il cappotto, faticosamente acquistato dopo anni di risparmi da formichina, ed aggirandosi per le vie gelide della città tenta disperatamente di venire a capo della sua piccola tragedia, nell'indifferenza di una città nella morsa dell'inverno russo.
O il mondo in cui due giovanotti a passeggio sulla Prospettiva Nevskij, si mettono impulsivamente a pedinare due belle - una bionda, l'altra brunetta - lasciandosi andare al corso dei loro sogni, e finendo per cacciarsi in un bizzarro intrigo.
Il mondo in cui il giovane artista Cartkov, curiosando in una polverosa botteguccia d'arte, entra in possesso del ritratto di un vecchio, che pare essere avvolto da un'oscura maledizione.
Ed è infine il mondo in cui si aggira, perso nelle bizzarre volute del suo pensiero acciaccato dalla schizofrenia, un impiegato le cui giornate Gogol ci descrive attraverso un delirante diario.
Insomma, un mondo pieno di figure ed emozioni contrastante, cui fa da sfondo lo sferragliare delle slitte sull'affollata Prospettiva Nevskij, in un turbinare di folla del tutto indifferente alle disavventure piccole e grandi dei singoli personaggi dei quali Gogol tiene le fila.
Una città attualissima nel suo disinteresse nei confronti degli individui, colpiti più o meno bizzarramente dai capricci della sorte.

UN ASSAGGIO:
"Quel giovanotto apparteneva ad una classe che da noi rappresenta un fenomeno piuttosto strano, e che fa parte della popolazione di Pietroburgo quanto un viso apparsoci in sogno fa parte del mondo reale. Questo ceto singolare è assai insolito in questa città in cui tutti sono funzionari o mercanti o artigiani tedeschi. Era un artista. Non è vero che è un fenomeno strano? Un artista pietroburghese! Un artista nella terra delle nevi, un artista nel paese dei finnici, dove tutto è umido, piatto, uniforme, pallido, grigio, nebbioso. Questi artisti non assomigliano affatto agli artisti italiani, orgogliosi, ardenti come l'Italia ed il suo cielo; al contrario, sono perlopiù gente buona, mite, timida e spensierata, che ama pacatamente la sua arte, prende il thè con due amici nella sua stanzetta, ragiona modestamente dell'oggetto amato e disdegna del tutto il superfluo. Continuerà a portarsi in casa qualche vecchia mendicante e la farà posare per sei ore buone per trasferire sulla tela la sua faccia misera e inespressiva."

giovedì 4 novembre 2010

William Golding - IL SIGNORE DELLE MOSCHE


DOVE: su un'isola deserta
QUANDO: in un ipotetico futuro in cui la terra è infiammata da un sanguinoso conflitto planetario.

I ragazzi, si usa dire, sono il nostro futuro. E' nelle loro mani che lasceremo il pianeta, è sulle loro spalle che ricadranno i nostri errori ed è per loro che dobbiamo impegnarci a costruire delle solide basi sulle quali loro possano, a loro volta, far poggiare le proprie vite. Lampante e incontrovertibile? Non del tutto, se per una volta, volendoci districare dalla banalità di certi luoghi comuni, ci immergiamo in una singolare avventura proposta dallo scrittore William Golding, premio Nobel per la letteratura nel 1983.
Immaginiamo dunque che la Terra- la nostra Terra - venga improvvisamente ( e non così tanto inverosimilmente) dilaniata da un conflitto di proporzioni planetarie. Immaginiamo poi che, mentre la guerra infiamma, un aereo precipiti in una piccola isola, sperduta nella solitudine salata dell'Oceano, lasciando come soli superstiti uno sparuto gruppo di ragazzini, spaventati e confusi. Immaginiamo che questi ragazzi, rimboccandosi le maniche, decidano infine di organizzarsi e riprendere in mano le loro vite, non potendo contare sull'aiuto degli adulti, con l'intento di dare vita ad una piccola comunità che non lasci alcuno spazio alla violenza ed alle meschinità dei grandi.
Nascerebbe così - potremmo infine immaginare - il primo germe di una nuova era per il genere umano, in cui ci si lasci alle spalle gli errori che l'hanno portato sull'orlo della distruzione; una nuova età dell'Oro, nella quale tutti vivrebbero felici e contenti. Peccato che, ben presto, la buona lena dei giovani sopravvistuti cominci a vacillare, lasciando emergere sprazzi di un lato oscuro che tutti noi, in quanto Uomini, ci portiamo dentro.
Questo, molto in sintesi, il pensiero di Golding, che con straordinaria capacità evocativa ci immerge in un mondo silenzioso, fatto di salsedine, sabbia e notti buie come la pece, nel folto di una natura che osserva, neutrale e cinica. Un libro che apre gli occhi su quel lato selvaggio che tutti noi portiamo dentro, ben custodito sotto la scorza della nostra millenaria "civiltà."

UN ASSAGGIO:

"Vide che era possibile arrampicarsi sulla parete, ma non ce n'era bisogno. C'era una specie di cornice che girava tutt'intorno alla roccia, e ci si poteva spostare a destra e girare l'angolo in modo da sparire alla vista di quelli ch'erano rimasti indietro. Non era difficile, e ben presto si trovò al di là dell'angolo.
Non c'era nient'altro di quello che ci si poteva aspettare: rosei macigni accavallati l'uno sull'altro, con sopra uno strato di guano come una spolveratura di zucchero; e un pendio ripido che conduceva alle rocce frastagliate in cima al bastione.
Un rumore alle sue spalle lo fece voltare: Jack strisciava verso di lui sulla cornice."

venerdì 29 ottobre 2010

WILLIAM SOMERSET MAUGHAM - Il Mago


DOVE: tra Parigi e Skeene, solitario villaggio nella campagna inglese
QUANDO: agli inizi del ventesimo secolo

Cosa può accadere ad una felice coppia di innamorati che, per un curioso intreccio del fato, dovesse incontrare l'imponente figura di Oliver Haddo, presuntuoso e corpulento appassionato di occultismo - e forse, secondo alcune voci, dedito egli stesso a oscure pratiche magiche? E cosa accadrebbe, se questa infelice coppia avesse la disgrazia di suscitare l'ira di quest'uomo tanto inquietante? Questi i nodi attorno ai quali ruota questa oscura vicenda, nella quale la spasmodica ricerca di vendetta si intreccia alle più estreme ed inquietanti follie alchemiche, tra una Parigi romanticamente dorata dall'autunno e il placido e silenzioso verde della campagna inglese.
Un romanzo datato 1908 che mantiene, ad oltre un secolo di distanza, la capacità di farci trattenere il fiato nella più cinematografica delle suspence; una storia che parla di vendetta, di alchimia, di forza di suggestione e di oscuri ed innominabili poteri. E sullo spasmodico desiderio della specie umana di comprendere - con mezzi più o meno leciti - qual'è la scintilla che ci muove e ci alimenta, cos'è e da dove prende forma questa forza effimera ed inarrestabile che chiamiamo vita.

UN ASSAGGIO:

"Il dottor Porhoet camminava con le spalle curve, le mani dietro la schiena. Osservava la scena con gli occhi dei tanti pittori che hanno cercato di esprimere il loro senso della bellezza attraverso il giardino più affascinante di Parigi. L'erba era disseminata di foglie secche, ma il loro languido disfarsi ben poco contribuiva a conferire un tocco di naturalezza all'artificiosità dello sfondo. Gli alberi erano circondato da cespugli ben ordinati, e i cespugli, a loro volta, da aiuole ben curate. Ma gli alberi crescevano senza alcuna spontaneità, quasi fossero consapevoli dello schema decorativo che contribuivano a formare. Era autunno, e alcuni erano già spogli. Molti fiori erano appassiti. Il giardino, nella sua formalità, faceva pensare ad una donna un po' vana, non più giovane, che con la sua eleganza datata, con cipria e belletto, cercasse di celare dietro un volto intrepido la sua disperazione".

mercoledì 13 ottobre 2010

TULLIO AVOLEDO - L'elenco telefonico di Atlantide


DOVE: In una città del Nord-Est
QUANDO: nei giorni nostri

Ci sono libri che per me sono un po' una storia nella storia; come matrioske, custodiscono dentro di loro pezzetti di ricordi del tutto personali, che li rendono ancora più preziosi. Se penso a questo libro, mi viene in mente il tavolino di un Mc Donald's ed un Mc Flurry agli smarties, in una giornata di qualche anno fa nella quale avevo accompagnato quello che sarebbe diventato mio marito ad un colloquio in un'altra città. Eravamo giovani, nel pieno dei "lavori in corso" per costruire il nostro futuro - anche se poi il trasferimento non è stato necessario, e siamo potuti rimanere dove siamo. Ho atteso tutta la mattina in un centro commerciale, con la bizzarra sensazione di essere estranea a tutta la quotidianità che vedevo scorrermi intorno; e per sentirmi meno sola, sono entrata in una libreria, in cerca di qualcosa che mi aiutasse a trascorrere il tempo. E' stato così che ho conosciuto questo scrittore friulano ed il suo romanzo d'esordio, sorprendente storia che prende il via da un anonimo condominio di una città del Nord-Est, nel garage del quale cominciano ben presto ad accadere cose strane. Ed il tranquillo impiegato Giulio Rovedo, che in quel condominio vive, finisce per trovarsi invischiato in una misteriosa vicenda che, partendo da quella che sembra una semplice fusione aziendale, finisce poi per sollevare il sipario su scenari inquietantemente surreali. La sua vita finisce per esserne stravolta, sullo sfondo d'asfalto di una città che continua a correre sui suoi binari, indifferente a quanto accade ai suoi piccoli, insignificanti abitanti.
E quando pare che un colpo di scena riveli finalmente la chiave di tutto, come un violento colpo di vento giunge l'inaspettato finale, che di nuovo muta davanti ai suoi occhi le prospettive.
E' un libro che cattura e scorre via veloce, una pagina dopo l'altra, a patto che si amino le storie in cui la fantascienza più pura affonda le sue radici in una quotidianità assonnata ma frenetica; perfetto per evadere da quattro o cinque ore di attesa, nell'aria viziata di un centro commerciale.

UN ASSAGGIO:

"Il ristorante cinese ' Grande Muraglia' è arredato in uno stile a metà tra l'Ultimo Imperatore e un bar di periferia; cosa, quest'ultima, che corrisponde effettivamente alla precedente incarnazione del locale, tant'è che non di rado qualche ubriaco, durante un personale ed interiore viaggio nel tempo, oltrepassa senza farci caso i draghi di gesso a fianco della porta, si avvicina al bancone e, anche se un po' sconcertato dal taglio degli occhi del barista, ordina una grappa, trasecolando definitivamente alla domanda:'Grappa alle rose o al ginseng?'"

ANONIMO - Sweeney Todd, Il diabolico barbiere di Fleet street



DOVE: Londra
QUANDO: 1785

Solitamente, quando il cinema propone la trasposizione di un libro che non ho ancora letto, preferisco sempre cominciare con quest'ultimo; adorando infatti l'incantesimo della carta scritta, preferisco lasciare libero sfogo alla mia fantasia nel costruire scenari e personaggi, anzichè farmi influenzare dalle scelte di un regista. Mi rendo conto che questo può sconvolgere gli appassionati del grande schermo, ma ammetto senza vergogna di non aver visto ancora la versione cinematografica che Tim Burton ha proposto per il diabolico barbiere. In compenso, ho divorato in pochi giorni il romanzo, probabilmente risorto agli onori della stampa anche grazie al film (anzi, consiglio di leggere la piccola ma curata postfazione nella quale, oltre ai doverosi accenni alla cronaca reale si traccia una breve ma curiosa storia della vita "letteraria" di questo inquietante personaggio).
Siamo alla fine del Settecento, in una Londra cupa e malsana, nella quale la miseria spinge spesso ad accettare qualsiasi lavoro, purchè questo garantisca un tetto sulla testa ed un pasto caldo e i manicomi finiscono spesso per essere la via più comoda per eliminare dalla propria vita le presenze "fastidiose". Proprio qui, nella calma apparente di Fleet Street, a due passi dal chiassoso Temple e dai suoi avvocati, sorge una piccola bottega di barbiere, la cui vetrina promette un'accurata rasatura per un penny. Peccato che lo sgraziato proprietario pare abbia l'abitudine di far sparire i malcapitati clienti che si fossero trovati a transitare sulla sua sedia con qualche avere di troppo. Intorno alla sua spaventosa figura si intrecciano le vicende della giovane e coraggiosa Johanna Oakley, decisa a scoprire cosa ne è stato del suo spasimante, misteriosamente scomparso assieme alla collana di perle che avrebbe dovuto regalarle, e di Tobias Ragg, malcapitato garzone che si trova ben presto avvinto dalle minacce del barbiere al suo terribile segreto.
Ma qual'è, questo segreto, e cosa ha a che fare con la popolarissima taverna della signora Lovett, e con le austere volute della cripta della chiesa di St. Dunstan? Pagina dopo pagina, tra colpi di scena, sparizioni, macabri ritrovamenti, ingegnosi tranelli e la più autentica suspence, tiriamo infine il fiato sull'attesa (non senza qualche sorpresa) conclusione.
Una storia capace di dare ancora qualche brivido, anche a noi "moderni", ormai avvezzi ai più cruenti scenari di cronaca.

UN ASSAGGIO:

"Silenzio! Arriva qualcuno; è il vecchio Grant, del Temple. Come va, signor Grant? Mi fa piacere vedervi così in forma. Rallegra vedere un gentiluomo della vostra età con un aspetto così fresco e sano. Sedetevi, signore; giratevi un po' da questa parte, se permettete. Rasatura, suppongo?"
"Sì, Todd, sì. Novità?"
"No, signore, niente di emozionante. Tutto è molto tranquillo, signore, eccetto il forte vento. Hanno detto che ha soffiato via il cappello al re, ieri, signore, e lui ha preso in prestito quello di Lord North. Anche il commercio va a rilento, signore. Penso che con questa pioviggine la gente non abbia voglia di uscire per farsi pulire e rivestire. Nella mia bottega non entra nessuno da un'ora e mezza."
"No signore" disse Tobias "avete dimenticato quel marinaio con il cane, signore."
"Ah, certo!" disse Todd "Se n'è andato, e l'ho visto ficcarsi in qualche vicolo dalle parti del mercato."
"Mi meraviglio di non averlo incontrato, signore", disse Tobias "perchè venivo proprio da quella direzione; e poi sarebbe stato proprio stupido a lasciarsi dietro il cane."
"Sì, molto", disse Todd. "Potete scusarmi un momento, signor Grant? Tobias, ragazzo mio, voglio solo che tu mi dia una mano un momento sul retro."
Tobias seguì Todd senza diffidenza nel retrobottega; ma quando vi entrarono e la porta venne richiusa, il barbiere balzò su di lui come una tigre arrabbiata e, afferrandolo per la gola, gli sbattè la testa contro le pareti di legno così tante volte che il signor Grant dovette pensare che ci fosse un carpentiere al lavoro; poi il barbiere prese il garzone per i capelli e lo fece roteare su sè stesso, colpendolo con un calcio talmente forte da farlo finire disteso in un angolo della stanza. Dopo di che, senza dire una parola, il barbiere tornò dal suo cliente e sprangò la porta del retro, lasciando Tobias a digerire con comodo e nel modo migliore il trattamento che aveva ricevuto.
Quando tornò dal signor Grant, si scusò per averlo fatto aspettare dicendo: "Era necessario, signore, insegnare al mio nuovo apprendista un po' del suo lavoro. Ora l'ho lasciato là a studiare. La cosa migliore, con i giovani, è spiegargli le cose una volta per tutte."

giovedì 30 settembre 2010

PATRICK SUSKIND - Storia del Signor Sommer


DOVE: Untersee, piccolo villaggio sulla riva di un lago della Baviera

QUANDO: in un tempo non specificato.

Probabilmente esagero, ma questo libro mi ha riportato per molti versi alla mente uno dei miei libri preferiti, Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupery. Diversa la trama, eppure c'è un che di simile, nell'atmosfera candidamente favolistica con cui Suskind racconta la storia dell'eccentrico signor Sommers, vista attraverso gli occhi di un suo piccolo concittadino. Ben lontano dalle atmosfere cupe de "Il Profumo", ma mantenendo lo stesso potere evocativo, stavolta ci conduce in un paesello bavarese, Untersee, adagiato sulla riva di un lago e quasi tutt'uno col confinante Obernsee, tanto da fondersi, agli occhi de forestieri, in un unico paese. In questa terra verde di boschi vive un singolare personaggio, del quale i più ignorano tutto, tranne una cosa: che il Signor Sommers cammina. Lo si vedeva con la neve e con la grandine, con l'afa, alle prime luci dell'alba e con la luna alta nel cielo, quando i bambini assonnati si incamminano di malavoglia verso la scuola e quando la sera, chiudendo le finestre per andare a dormire, si affacciavano in strada. Instancabile, inconfondibile, accompagnato solo dal suo bastone e dallo zaino.
Ed inevitabilmente finisce per essere l'oggetto delle chiacchiere degli adulti, che consapevoli di cosa vuol dire crescere lo bollano come "svitato" e biasimano le sue solitarie scorribande senza una meta, mentre la moglie lavora ininterrottamente nel loro scantinato, fabbricando bambole. Perchè il Signor Sommer cammina? Dove lo spinge il suo camminare senza meta?
Attraverso lo sguardo attento di un bambino, prende lentamente forma la storia del suo curioso concittadino.

UN ASSAGGIO:
"Era facile riconoscerlo. Il suo aspetto era inconfondibile, anche a distanza. D'inverno portava un lungo cappotto nero, eccessivamente ampio e stranamente rigido, che a ogni passo gli ballava sul corpo come un involucro troppo grande, stivali di gomma e sulla pelata un berretto rosso con il fiocco. D'estate però - e l'estate per lui durava dall'inizio di marzo fino alla fine di ottobre, cioè il periodo senz'altro più lungo dell'anno - il signor Sommer portava una paglietta con un nastro nero, una camicia di lino color caramello e pantaloni corti, dello stesso colore, da cui spuntavano, ridicolmente scarne, le sue gambe lunghe, fibrose, quasi soltanto un groviglio di tendini e di vene varicose, che in basso sparivano entro un paio di rozzi scarponi da montagna."

mercoledì 29 settembre 2010

HENRY JAMES - Giro di vite

Grassetto
DOVE: in un'antica dimora nell'Essex
QUANDO: tra la metà e la fine del Diciannovesimo Secolo

Forse molti storceranno il naso, nell'accostare il termine "horror" ad un'opera pubblicata nel 1898: oggi come oggi, è un termine che a noi evoca scenari splatter e sadici scatenati. Parlare di "classici dell'horror", probabilmente rimanda nella mente della maggior parte alla tenera ingenuità dei primi film in bianco e nero, quando la tensione era giocata più che altro sul filo di un pianoforte abilmente ritmato e bocche spalancate plasticamente a forma di "O".
Personalmente, penso però che sia sciocco non lasciarsi per una volta trasportare dal potere evocativo delle parole, anzichè dalla banale violenza di certe immagini. E lasciare che Henry James ci conduca in una solitaria dimora nobiliare dolcemente abbandonata nel cuore più verde della campagna inglese, dove una giovane istitutrice viene assunta per educare due adorabili bambini, tutti riccioli e moine. Peccato che per lei, ben presto, l'atmosfera deliziosamente "old England" si sfilacci miseramente davanti ai suoi occhi, lasciando trapelare un oscuro mistero. Come e perchè la vecchia istitutrice è scomparsa? E chi sono le misteriore presenze che sembrano agitarsi inquiete tra le silenzione stanze di Bly? Miss Giddens, tenendo sempre ben a mente la raccomandazione del padrone di casa, uomo d'affari che chiede di non venir assolutamente disturbato qualsiasi cosa dovesse accadere nella residenza di campagna, combattuta tra il naturale terrore e l'istinto protettivo verso i suoi bambini, indaga. Riuscirà a proteggere i bambini dalle due oscure presenze che sembrano minacciare la loro ingenuità?
Da qui si snoda tutta una vicenda ricca di tensione, sembre in bilico tra ciò che sembra e ciò che è, in un crescendo che finirà per scardinare con la violenza di un uragano tutto ciò che Miss Giddens aveva creduto.

E, se non dovesse bastare questo a convincere gli scettici, fate un giro in internet e scoprite quante edizioni cinematografiche sono state tratte più o meno direttamente dal romanzo di James: scoprirete che è un classico che ha ancora tanto, tanto da dire.

UN ASSAGGIO:

"Era lì che erano rimasti i miei guanti, e allora rientrai per prenderli. La giornata era ancora grigia, ma la luce del pomeriggio non era del tutto scomparsa, il che mi consentì, mentre attraversavo la soglia, non solo di vedere i guanti che stavo cercando posati su una sedia accanto alla grande finestra chiusa, ma anche di rendermi conto che, fuori dalla finestra, c'era una persona che stava guardando dentro la stanza. Mi era stato sufficiente fare un solo passo nella stanza per avere una visione totale e immediata: la persona che stava scrutando tanto attentamente nella stanza era la stessa che avevo già visto! Così eccola che faceva di nuovo la sua apparizione, ma essa, devo precisare, non fu più chiara della prima (sarebbe stato impossibile), ma con una vicinanza che rappresentava un approfondimento del nostro rapporto e che, mentre la guardavo, mi mozzò il respiro e mi fece gelare il sangue."

LUIS SEPULVEDA - il vecchio che leggeva romanzi d'amore


GrassettoGrassetto
DOVE: El Idilio, colonia di bianchi nel cuore della foresta amazzonica

QUANDO: nei giorni nostri

A El Idilio, dove la pioggia scroscia furiosa lasciando il posto ad un afa appiccicosa, la morte di un colono bianco non sarebbe di per sè un evento. L'uomo bianco è fragile, facile preda delle malattie e degli incidenti, quando si addentra nel frondoso territorio degli indios shuar, lì dove la Natura domina selvaggia ed incontrastata. Ma quando un giovane colono robusto viene trovato morto, con una vistosa ferita al collo, nella piccola colonia l'agitazione s'insinua tra le baracche. Ed al panciuto ed odioso sindaco, dopo aver ingiustamente accusato dell'omicidio gli stessi shuar che avevano condotto il corpo lungo il fiume sulla loro canoa, non resta che arrendersi all'evidenza: non è un indio a minacciare la tranquillità dei suoi concittadini, ma un tigrillo, una belva emersa dal folto della vegetazione per prendersi chissà perchè la briga di ammazzare i suoi uomini. E con tutta la presunzione che può contenere la sua abbondante - e sudatissima -persona, si rivolge all'unico uomo che può aiutarlo a catturare l'animale: il vecchio Antonio Josè Bolivar Proano, bianco di nascita ma shuar di adozione, che da questi ha appreso lentamente i segreti della foresta e i dei sottili fili che intrecciano le esili vite umane alla prepotente forza della Natura. Antonio Josè Bolivar, che custodisce nel profondo del suo cuore la cicatrice mai chiusa di un amore sbiadito e di un antico dolore, e che ha scoperto il dolce incantesimo dei romanzi d'amore - accetta, sebbene a malincuore, di porre la sua esperienza al servizio dell'odiato sindaco; e s'inoltra nel folto della foresta, accompagnato dal fantasma dei suoi tanti ricordi.
Questa, molto semplicemente, la trama di un libro che ci immerge in un mondo silenzioso, dove le foglie frusciano minacciosamente annunciando l'avvicinarsi dei tigrillos, le nuvole si chiudono di scatto sopra alle teste rovesciando piogge torrenziali e il dentista giunge, portato dal fiume, una volta all'anno, assieme ad una poltrona portatile con la quale allestisce un improbabile studio odontoiatrico sulla banchina del porto. E, soprattutto, un mondo in cui noi occidentali diventiamo piccoli ed indifesi, in balia di una natura che non sappiamo più ascoltare nè comprendere.


UN ASSAGGIO:

"Un bel giorno, insieme alle casse di birra e alle bombole di gas, il Sucre sbarcò un annoiato ecclesiastico, inviato dalle autorità religiose con la missione di battezzare i bambini e di mettere fine ai concubinati. Tre giorni rimase il frate a El Idilio, senza trovare nessuno disposto a portarlo nei piccoli villaggi dei coloni. Alla fine, annoiato per l'indifferenza della clientela, si sedette sul molo ad aspettare che la barca lo riportasse via da lì. Per ammazzare le ore della canicola tirò fuori dalla tasca un vecchio libro e cercò di leggere un po' prima di essere sopraffatto dal sopore.
Il libro nelle mani del religioso funzionò come esca per gli occhi di Antonio Josè Bolivar, che aspettò pazientemente finchè il frate, vinto dal sonno, lo lasciò cadere di lato.
Si trattava di una biografia di San Francesco, che scorse furtivamente con la sensazione di commettere una specie di furtarello. Metteva insieme le sillabe, e man mano che andava avanti l'ansia di capire tutto quello che c'era in quelle pagine lo portò a ripetere a mezza voce le parole afferrate al volo."

martedì 21 settembre 2010

GUESTBOOK


.. a vostra disposizione per un pensiero, un suggerimento, un saluto...

un grazie a tutti i "viaggiatori" di passaggio! ^_^

HARPER LEE - Il buio oltre la siepe



DOVE: profondo Sud degli Stati Uniti
QUANDO: anni'50

Cosa succede quando una giovane nativa dell'Alabama e amica fin dall'infanzia del grande Truman Capote decide di mettersi a scrivere i suoi ricordi di bambina?
Nasce, naturalmente, un capolavoro.
Questa, in poche righe, la genesi de Il buio oltre la siepe, pubblicato - con gran successo - negli anni '60 e divenuto ormai un classico, complice anche l'adattamento cinematografico con Gregory Peck.
Un libro estremamente moderno, nella sua capacità di dipingere con semplicità un affresco delle meschinità più bieche del razzismo e della straordinaria caparbietà di chi a ciò sceglie di opporsi, anche quando questo significa scontrarsi contro un'intera comunità. La storia, vista attraverso gli occhi della piccola Scout, ragazzina anticonvenzionale e intelligente, narra la storia di suo padre Atticus Finch, avvocato che sceglie di difendere dall'accusa di violenza carnale il giovane (e innocente) Tom Robinson. Peccato però che Tom sia un "negro", e come tale, nella grettezza di opinioni della "brava gente" di Maycomb, certamente meritevole di castigo. D'altronde, come poter pensare di opporre la parola di un nero che proclama la sua innocenza a quella di una giovane bianca? Scout e il fratellino Jem, con la semplicità disarmante dei bambini, guardano ed ascoltano ogni cosa, sforzandosi di capire. Sullo sfondo, un'America agricola e bigotta, in cui i bambini corrono scalzi in strada e mettono alla prova il loro coraggio entrando nel giardino della "casa maledetta" dei Radley, nella quale - si dice - viva in perfetta solitudine il giovane Boo, malato di mente la cui malattia, nell'immaginario dei concittadini, sfuma nei toni della mostruosità.
Un romanzo che, pur nella sua delicatezza, colpisce con la violenza della verità più cruda. Perchè ci ricorda le nostre responsabilità di adulti nel costruire un mondo migliore. E ci ricorda che i bambini ci guardano, sempre.

UN ASSAGGIO:

"Il signor Avery stava a pensione di fronte alla casa della signora Lafayette-Dubose. Tutte le domeniche posava una banconota sul piatto delle elemosine prendendosi tutti gli spiccioli in cambio, e tutte le sere sedeva sulla veranda fino alle nove e starnutiva. Una sera fummo così fortunati da assistere ad una sua esibizione, che doveva essere la prima e l'ultima perchè per quanto lo spiassimo non la ripetè mai più. Jem e io scendevamo una sera gli scalini della casa di miss Rachel quando Dill ci fermò:'Accidenti!' disse 'Guardate un po' là!' E indicò la casa al di là della strada. Dapprima vedemmo soltanto una veranda coperta da rampicanti, ma a una più attenta osservazione scoprimmo un getto d'acqua che dalle foglie cadeva schizzando nel cerchio giallo della luce del lampione; a quanto ci parve, dalla fonte dello zampillo a terra potevano esserci tre metri. Jem disse che il signor Avery aveva calcolato male le distanze e Dill aggiunse che doveva bere almeno quattro litri d'acqua al giorno, e la discussione che seguì per determinare le relative distanze e le rispettive prodezze ancora una volta mi diede l'impressione d'esser tagliata fuori, visto che in materia non me ne intendevo."

domenica 19 settembre 2010

EDWIN A. ABBOTT - Flatlandia


DOVE: in un mondo immaginario a due sole dimensioni
QUANDO: in nessun tempo

Ecco un libro davvero particolare, che consiglio a chi voglia leggere qualcosa di leggero che al contempo nasconda in sè un'anima impegnativa. Perchè Flatlandia dietro l'apparenza "favolistica" del racconto, porta con sè l'ambizioso - e a mio modesto avviso, riuscito - compito di divulgare al grande pubblico uno dei concetti scientifici più ostici: l'esistenza di una quarta dimensione. E lo fa nel modo più semplice possibile, presentandoci un piccolo mondo in due dimensioni, popolato di quadrati, triangoli e cerchi che vivono le loro placide vite bidimensionali. E questo mondo, Abbott ce lo descrive minuziosamente nella prima parte del libro, raccontandone la società, le credenze, le abitudini.Ma cosa succede quando in questo mondo tranquillo giunge una sfera?
Non anticipo nulla, perchè Flatlandia è un libro che va scoperto e digerito passo passo; dico solo che gli eventi inspiegabili che sconvolgeranno il piccolo mondo bidimensionale fanno sorridere e riflettere. Ed aiutano a capire con semplicità che può esserci molto di più di ciò che i nostri sensi sono in grado di percepire con immediatezza. Il tutto, è assolutamente straordinario, se pensiamo che la storia è datata addirittura 1882.
Dietro la storia, l'autore (qui il profilo Wikipedia con maggiori dettagli), teologo e insegnante prima che scrittore, il che certo aiuta a capire ancor di più il sapore in un certo senso "filosofico-religioso" che la narrazione assume in alcuni punti, quando i due mondi - a due e a tre dimensioni - vengono a contatto, con le inevitabili incomprensioni e le difficoltà di percezione che questo comporta (difficile per gli abitanti del mondo bidimensionale riuscire a capire che il misterioso visitatore che svanisce nel nulla è in realtà in grado di muoversi lungo una dimensione che essi non sono in grado di vedere nè tantomeno intuire).
Una storiella scorrevole - giusto nella fase iniziale, personalmente, ho scalpitato un po' quando la lunga e minuziosa descrizione del mondo bidimensionale rallentava un tantino la storia - brillante, deliziosamente intessuta di piccoli bocconi rudimentali di scienza.
Geniale, per menzionare giusto un passo, l'incontro dei personaggi con il mondo unidimensionale del punto (anche in questo caso, non anticipo nulla più di questo onde evitare di togliere gusto alla lettura della storia).
Un libretto all'apparenza senza pretese che però, a chi vuole guardarlo con occhio attento, apre un mondo di riflessioni multisfaccettate, sull'esistenza, sulla nostra percezione del mondo, sulla possibilità che esistano cose - e mondi - che il nostro occhio non sia in grado di percepire, e universi sterminati dei quali noi ignoriamo l'esistenza. Un colpo, insomma, se vogliamo leggerlo in quest'ottica, supponendo di essere noi gli ignari abitanti di Flatlandia, alla nostra mania di sentirci unici, irripetibili, al centro dell'universo.

Un libro che consiglio certamente a tutti coloro che vogliano dare respiro, con un sorriso, alla loro mente a tre dimensioni. ^_^

UN ASSAGGIO:

"Anche mia moglie aveva udito le parole, benchè non ne avesse compreso il significato, e tutti e due balzammo in direzione della voce. Quale non fu il nostro orrore quando ci vedemmo davanti una Figura! A prima vista ci parve una Donna, vista di lato; ma un momento di osservazione bastò a mostrarmi che le sue estremità sfumavano in modo troppo sensibile per un'appartenente al sesso femminile. L'avrei ritenuto un Circolo, ma le sue dimensioni sembravano cambiare in modo impossibile per un circolo o per qualunque altra figura di cui avessi avuto esperienza."


Grassetto

venerdì 17 settembre 2010

PAOLO MAURENSIG - Canone inverso


DOVE: Vienna (Austria)
QUANDO: primi decenni del '900

Ecco un libro "piccolo" (solo 170 pagine o poco più), ma davvero intenso, uno di quelli che inizi a leggere annoiato dall'attesa dei mezzi pubblici e dal quale alzi la testa, ore dopo, intontito e rendendoti conto di aver perso la cognizione del tempo. Perchè "Canone Inverso" è un racconto che cattura e rapisce, avvolgendoti senza scampo. Ti cattura con il suo stile narrativo, che inizia in stile "matrioskeggiante", con una storia che racchiude un'altra storia che a sua volta ne racchiude in sè una terza. Un uomo acquista, nella Londra moderna, un prezioso violino del Seicento da Christie's; ancora immerso nel compiacimento per l'acquisto, viene interrotto da uno sconosciuto che, bussando alla porta della sua camera d'albergo, chiede di poter vedere lo strimento e ne racconta, con evidente emozione, la storia. Sì, perchè l'uomo sostiene di aver conosciuto, anni prima, il proprietario di tale meraviglia, incontrato per puro caso a Vienna, durante i festeggiamenti per i trecento anni di Bach; un violinista di bravura straordinaria, celato dietro le vesti umili di un suonatore di strada. Il quale, a sua volta, ha raccontato all'uomo la sua storia, fatta di sudore e capovolgimenti del destino, una storia iniziata presso un austero conservatorio viennese, in cui tra il rigore e la disciplina agli scolari viene instillata la fredda tecnica esecutiva - a discapito, talvolta, di estro e talento. Qui nasce l'amicizia tra Jeno Varga e Juno Blau, e da qui prende l'avvio una storia avvincente fatta di amicizia, d'amore, di studio e fatica; una storia che finisce per intrecciarsi - fino a rischiare di venirne soffocata - dalla Storia dell'Europa che nel frattempo avanza, al ritmo delle parate militari sotto l'egida delle croci uncinate. Pagina dopo pagina la storia scivola via scorrevole, fino ad un finale sorprendente; e sopra a tutto, sopra alle piccole vite dei singoli che si spengono di fronte alla grandezza della Storia, sopra ogni cosa aleggia la musica, quella eterna della Ciaccona di Bach, che a dispetto di tutto, resiste.


UN ASSAGGIO:

"Per i più grandi, invece, le cose andavano diversamente: sul loro capo, dopo una mancanza, pendeva per tutto il resto dell'anno la grande minaccia. Solo alla fine della sessione estiva il 'colpevole' avrebbe conosciuto il proprio destino. E la condanna veniva pronunciata in pubblico, quando eravamo presenti nell'aula magna alla cerimonia del diplomi. Dopo i vari discorsi degli insegnanti e quello, interminabile, del direttore, si dava il via alla ripartizione dei premi e delle pene, che erano sempre l'espulsione. L'allievo veniva chiamato ad alta voce e invitato ad avvicinarsi alla cattedra. Una volta ascoltata la sentenza, doveva togliere la giacca verde dell'uniforme, lasciarla cadere a terra e uscire dall'aula sotto gli occhi di tutti. Una condanna a morte e la condotta al patibolo non potevano apparire più terribili."

domenica 22 agosto 2010

JOHN STEINBECK - In viaggio con Charley


DOVE: attraverso gli Stati Uniti d'America
QUANDO: anni'60

Se avete - o avete avuto - la fortuna di condividere una parte della vostra vita con un cane, non perdetevi questo libro. L'autore è addirittura John Steinbeck, uno dei più grandi scrittori americani di tutti i tempi. Parliamo, per intenderci, del "padre" di capolavori come "Uomini e Topi" e "La Valle dell'Eden", nonchè premio Nobel per la letteratura nel 1962. Ebbene, quello stesso John Steinbeck, agli inizi degli anni '60, decise di intraprendere un viaggio attraverso l'America a bordo di un pittoresco furgoncino ribattezzato "Ronzinante" e con l'unica compagnia del suo barboncino francese Charles Le Chien detto "Charley". Assieme allo scrittore e al suo quadrupede ci inoltriamo, da New York al Texas, con una puntata in Canada, attraverso l'America più verace, quella delle piccole chiesette lustre e dei piccoli moli di legno affacciati su acque in cui si pescano "le migliori aragoste al mondo", quella delle case mobili che corrono lungo le strade trainate da appositi autocarri, dei motel odorosi di muffa e polvere, delle lunghe strade lisce arginate solo dal cielo terso e delle piccole cittadine di provincia che lungo queste strade affacciano le loro botteghe.
L'America dei grandi parchi naturali, con gli orsi lungo il ciglio della strada; l'America dei distributori automatici di minestre calde, che funzionano a monete. Miglio dopo miglio ne scopriamo il sapore più autentico, mentre Charley, talvolta insofferente a causa di qualche piccolo acciacco dovuto all'età, ma altrimenti tranquillo e diplomatico, ascolta pazientemente i lunghi monologhi del suo padrone, risponde a modo suo, condivide, come solo l'amore di un cane può fare, la pazza idea di intraprendere un viaggio attraverso una terra tanto estesa da non poter essere mai compresa a fondo.
Ecco, questo è un libro per chi ama i viaggi, ma anche e soprattutto per chi sa cosa significhi lo sguardo ambrato di un cane che con quello sguardo sa commuoverti, sorriderti e talvolta perfino rimproverarti. E' in un certo senso la storia senza tempo di un amicizia nella quale siamo noi uomini a prendere molto più di quanto non riceviamo.


UN ASSAGGIO:

" ' Che ti succede, Charley, non stai bene?'
La coda, lentamente, mi dava le risposte. 'Ah, sì. Molto bene, direi.'
'Perchè non sei venuto quando ti ho fischiato?'
'Non ho sentito il tuo fischio.'
'Che cosa stai guardando?'
'Non lo so. Forse nulla.'
'Ma non vuoi la cena?'
'Veramente non ho fame. Ma almeno il gesto facciamolo.'
Dentro, si lasciò andare giù e posò il muso sulle zampe.
'Vieni sul letto, Charley. Siamo tristi insieme.'"

venerdì 20 agosto 2010

CHARLOTTE BRONTE - Jane Eyre


DOVE: Thornfield, antico maniero nella campagna inglese
QUANDO: prima metà del Diciannovesimo Secolo

Jane Eyre è decisamente una delle mie eroine letterarie preferite: anticonvenzionale, brillante, passionale eppure razionale e riflessiva, intraprendente quanto basta a prendere in mano le redini della propria vita e condurla là dove vogliamo che vada. Ho letto il libro due volte, a più di dieci anni di distanza, scoprendolo e riscoprendolo con occhi nuovi, ma senza smettere di amarlo. Non lasciatevi spaventare dall'austera definizione di "classico": Jane è ben lontana dall'essere la classica ragazza tutta riccioli e ricamo, seduta in un salottino ad aspettare un "buon partito". Perchè Jane, dalla vita, non ha avuto molto. Ben lontana dai canoni di bellezza dell'epoca, orfana, cresciuta da una zia che l'ha accettata a malincuore e solo perchè incatenata da una promessa fatta al marito morente, tormentata dai tre viziatissimi cugini, viene infine affidata all'austero istituto di Lowood, dove tra una rigida disciplina e il rigore del clima la piccola Jane cresce, e matura. Mentre intorno a lei le compagne vengono piegate - nel fisico e nello spirito - dall'asprezza della scuola (Jane perderà la sua amica più cara, uccisa dalla tubercolosi), Jane mostra invece un carattere forte e deciso, che la porterà a concludere gli studi, diventando insegnante nella stessa Lowood. Se la vita è aspra, Jane sembra non accorgersene affatto. Guidata dal suo temperamento, sceglie di lasciare Lowood - che ormai, nel bene o nel male, sappresenta per lei tutto ciò che possiede - per accettare un lavoro come istitutrice nell'austero maniero di Thornfield, dove si dovrà occupare dell'educazione dell'incantevole Adele, figlia adottiva del padrone di casa. Quest'ultimo, il signor Rochester, è un uomo scontroso e solitario sul cui cuore inaridito l'intelligenza e l'indipendenza del carattere di Jane faranno lentamente breccia, malgrado un oscuro mistero che le spesse mura di Thornfield custodiscono nel segreto della sua soffitta.
In Jane Eyre c'è romanticismo, tensione, svolte bizzarre del destino, ma sopra ogni cosa, c'è il carattere di Jane, che affronta di petto la vita senza lasciarsi abbattere; una donna moderna e indipendente che crede nel suo amore - quello con la A maiuscola, quello che vede al di là dell'aspetto esteriore e che tiene unite due persone malgrado le capovolte della vita sembrano, talvolta, allontanarli per sempre. E quando sembra che tutto sia perduto, il lieto fine arriva, con una potenza romantica che pochi altri libri hanno.


UN ASSAGGIO:

" ' Dubita di me, Jane?'
'Assolutamente.'
'Non ha fede in me?'
'Neanche un po''.
'Sono un bugiardo ai suoi occhi?' chiese con passione ' Piccola scettica, la convincerò. Che amore posso avere per la signorina Ingram? Nessuno, e lei lo sa. Che amore può essa avere per me? Nessuno; per averne la prova, ho fatto correr la voce che la mia fortuna non era che un terzo di quella che su credeva e dopo, presentandomi a vedere il risultato, fui ricevuto con freddezza tanto da lei che da sua madre. Non vorrei, nè potrei sposare la signorina Ingram. Lei, essere strano e quasi soprannaturale, è lei che amo come la mia carne. Lei povera e oscura, e piccola e brutta, lei supplico di accettarmi come marito.'
'Che, me?' Il suo ardore e la sua sgarberia cominciarono a farmi credere alla sincerità. ' Me che non ho un amico al mondo tranne lei, se lei mi è amico, non un soldo tranne quelli che lei mi ha dato?'
'Lei, Jane, deve essere mia, tutta, completamente mia. Vuol essere mia? Dica di sì, subito.'"

lunedì 9 agosto 2010

JEROME K. JEROME - Tre Uomini a Zonzo


DOVE: in giro per il Nord Europa
QUANDO: agli albori del 1900

Ecco un altro scrittore che ho scoperto tardi, ma che col suo stile leggero mi ha letteralmente catturata. Era fin da piccola che, sul retro di copertina dei miei amatissimi libri rilegati, nell'elenco degli altri titoli presenti nella collana, vedevo ricorrere il nome di Jerome Klapla Jerome: eppure, chissà perchè, non mi aveva mai particolarmente incuriosito.
Chissà, probabilmente quei due titoli ("Tre Uomini a Zonzo", e "Tre Uomini in barca") non facevano particolarmente presa, nella mia fantasia di bambina tutta "Pollyanna" e "Piccole Donne". Tutto questo fino a quando, anni dopo, per ingannare la noia di un'ora di ritardo del treno, non entro in libreria e ne esco con questo libro.
I tre uomini del titolo sono George, Harris ed il narratore J., tre mariti i quali, lasciata alle spalle la precedente vacanza in barca lungo il Tamigi (raccontata da Jerome nel primo libro), decidono di intraprendere un nuovo viaggio, questa volta in bicicletta alla volta della Germania. Superate le prime, inevitabili difficoltà - trovare una scusa valida per giustificare con le rispettive mogli il loro viaggio, oltre che inevitabili problemi meccanici con le biciclette - i tre giungono infine a destinazione. Una terra diligente ed ordinata che conosciamo attraverso la narrazione di J. , il quale con occhio attento e spirito pungente, dipinge pagina dopo pagina davanti ai nostri occhi una Germania ancora lontana dalle due Guerre Mondiali (il libro è stato pubblicato nel 1900), eppure così simile, perlomeno negli stereotipi più umoristici filtrati attraverso gli occhi di un britannico, a quella che conosciamo oggi, una Germania verde e tranquilla in cui tutto è disciplinato, regolamentato ed in cui perfino la natura è costretta a resistere agli improbabili tentativi di imbrigliarla. Ci immergiamo nel silenzio di un tempo in cui le auto non avevano ancora colonizzato palmo a palmo le città; pedalando al seguito dei tre viaggiatori, osserviamo scorrere intorno a loro uomini, donne e bambini; perfino i cani non sfuggono all'acuta osservazione di Jerome, diventando anch'essi spunto per raccontare le differenze tra i popoli - in un'epoca in cui, lungi dalla Globalizzazione, queste ultime erano davvero numerose.
Insomma un libro che si legge quasi tutto d'un fiato, che fa sorridere e che sorprende in più di un'occasione, quasi costringendo a controllare che davvero sia stato scritto oltre cento anni fa, tanta è l'attualità di certe osservazioni. Un libro da scoprire e ri-scoprire.

UN ASSAGGIO:

"Ci sono due modi di fare del moto con una bicicletta; si può 'ripassarla', oppure montarci sopra. Tutto considerato, non posso escludere che se la passi meglio chi si diverte a riparare una bicicletta. può infischiarsene del tempo e del vento; le condizioni delle strade gli sono indifferenti. Dategli una chiave inglese, alcuni stracci, un oliatore e qualcosa su cui sedersi, e quello è felice per una giornata intera. Naturalmente, non mancano gli svantaggi; non c'è rosa senza spine. Lui ha sempre l'aspetto di uno stagnino, e chiunque veda la sua macchina, pensa che l'abbia rubata e abbia tentato di camuffarla. Ma poichè è raro che gli riesca di fare più di un chilometro o due con quella macchina, la cosa, forse, non ha molta importanza."

ISAAC ASIMOV - I racconti dei Vedovi Neri




DOVE: Manatthan, New York
QUANDO: Anni '40

Se amate i gialli "vecchio stampo", non fatevi scappare questa raccolta di racconti del padre della fantascienza Isaac Asimov: niente robot, niente mondi futuribili, semplicemente un tranquillo gruppetto di mariti newyorkesi che, una volta al mese, si riuniscono - rigorosamente senza le mogli - per una cena a base di enigmi. Prendete posto a tavola, dunque, e preparatevi a spremere le meningi: ascoltate attentamente la storia che, di volta in volta, uno dei Vedovi Neri sottopone all'attenzione dei commensali, soppesate bene ogni indizio, valutate i fatti e dite la vostra. Dodici capitoletti per altrettanti racconti in ciascuno dei quali, alla fine, è il silenzioso e servizievole Henry, cameriere ufficiale nelle riunioni mensili, a fornire immancabilmente la chiave di volta dell'enigma, mentre tutti brancolano nel buio. Sorseggiate anche voi una tazza di caffè, addentate una fettina di rognone, accomodatevi bene al vostro posto ed ascoltate. Sarete in grado di scoprire che cosa è stato rubato ad un ricco collezionista sicuro d'esser stato vittima di un furto, nonostante non sia in grado di individuare il pezzo mancante? O scoprire l'indizio nascosto nell'opera di Shakespeare, per ritrovare la succulenta eredità di un prudente ed ingegnoso vecchio? O ancora, scoprire chi è la spia che, trafugando informazioni top secret su alcuni progetti spaziali, ha incastrato il dottor Long, costringendolo a lasciare la NASA?
Questi e tanti altri quesiti per tutti i gusti, da leggere sprofondati in poltrona in una giornata di pioggia, o perchè no, sotto l'ombrellone. Ma vi avverto: sarà difficile battere le brillanti intuizioni di Henry!

UN ASSAGGIO:

"Sulla riunione mensile dei Vedovi Neri aleggiava un certo gelo, chiaramente accentrato sull'ospite portato da Mario Gonzalo. Era un omone. Aveva gote paffute e lisce, capelli quasi inesistenti e indossava un gilet come non si era mai visto alle riunioni dei Vedovi Neri.
Si chiamava Aloysius Gordon e i guai cominciarono quando si presentò tranquillamente con nome e occupazione, dichiarando in tutta disinvoltura di far parte del 17° distretto di polizia. Fu come se il sole si fosse oscurato; dalla cena scomparve subito ogni brio."

mercoledì 4 agosto 2010

ALEXANDER MC CALL SMITH - Le lacrime della giraffa


DOVE: Gaborone (Botswana), Africa
QUANDO: nei giorni nostri

Se amate i gialli, ma volete un'ambientazione diversa dal solito, lasciatevi trasportare da Alexander McCall Smith nella capitale del Botswana, vastissimo e poco popolato stato dell'Africa centro-meridionale, dove tra acacie spinose e upupe che saltellano nei giardinetti recintati sboccia l'amore tra il signor JLB Matekoni - proprietario dell'officina meccanica Speedy Motors- e l'intraprendente Precious Ramotswe. Ma Le lacrime della giraffa non è soltanto una tenera storia d'amore illuminata dal caldo sole africano; la signora Ramotswe è infatti anche la fondatrice della N.1 Ladies' Detective Agency. Puntualissima, ogni mattina alle nove Precious apre il suo ufficio assistita dalla segretaria - nonchè accuratissima pettegola - signorina Makusi, per chiuderlo poi, con altrettanta puntualità, alle cinque del pomeriggio. In mezzo, giornate trascorse placidamente a base di tè rosso e pettegolezzi, nell'attesa che qualcuno, finalmente, varchi la soglia.
Ed ecco che qualcuno, in una giornata più pigra delle altre, quella soglia la varca: un'americana il cui figlio Michael è scomparso nel deserto, una decina d'anni prima. E Precious Ramotswe mette al servizio di questo caso apparentemente irrisolvibile tutto il suo ingegno - ed il suo cuore.
Non aggiungo altro, perchè un giallo che si rispetti dev'essere gustato senza alcun tipo di anticipazione che possa rovinarne il sapore. Dico solo che questo è un libro al quale ci si affeziona al punto tale, da volerlo rileggere nonostante se ne conosca già il finale; ci si affeziona all'impacciato signor ILB Matekoni, alla pratica signora Ramotswe, alla solerte signorina Makusi e a tutti i personaggi che orbitano loro attorno.
Chissà che il mal d'Africa non passi anche attraverso carta e inchiostro.


UN ASSAGGIO:
"Per qualche istante, dopo che la donna ebbe finito di parlare, la signora Ramotswe restò in silenzio. Cosa poteva fare per lei? Poteva scoprire qualcosa là dove avevano fallito la polizia del Botswana e l'ambasciata americana? Probabilmente non c'era niente che lei potesse fare, però questa donna aveva bisogno d'aiuto e se non lo poteva ottenere dalla Ladies' Detective Agency N.1, allora dove mai l'avrebbe ottenuto?
'Ti aiuterò' le disse, aggiungendo: 'sorella'."

lunedì 2 agosto 2010

CARMEN COVITO - La Rossa e il Nero

DOVE: Siria
QUANDO: nei giorni nostri

Volete sabbia bollente, notti torride, pittoresche latrine arrangiate alla bell'e meglio e popolate di animaletti striscianti e lunghe giornate di scavi sotto un sole abbagliante? E dissetarvi con acqua dell'Eufrate bollita, ad accompagnare minestre di lenticchie e formaggio trucioloso? E ancora, volete una intrigantissima lettera datata 1916 scovata per caso in un vecchio hotel di Aleppo, in cui la vita di una misteriosa "Juliet" sembra intrecciare indissolubilmente una ardente passione per lo sceicco Zafar con una qualche questione di soldi e spionaggio? Se l'idea vi incuriosisce, allora non fatevi scappare questo romanzo di Carmen Covito nel quale accompagnamo la simpatica protagonista Cettina Schwartz - italo tedesca, separata, precaria con tanto spirito d'iniziativa - che si imbarca come fotografa al seguito di una missione archeologica dell'Università di Parma diretta a Tell Mabruk. Peccato che quest' importante sito risalente al II millennio a.C. rischia però di svanire nel nulla, destinato ad essere sommerso ancor prima che possa riaffiorare dalla sabbia, dalle acque del fiume Eufrate come previsto dal progetto di costruzione di una nuova diga. E così, tra alzatacce all'alba, inevitabili disavventure "intestinali" e con l'hennè e languide occhiate del condirettore siriano dei lavori della missione, la storia si snoda tra presente e passato, dai giorni nostri fino agli albori della Prima Guerra Mondiale, quando l'amore per l'architettura e il gusto per l'esotico guidò la misteriosa Juliet verso il suo altrettanto misterioso destino.
E' un libro che ho scoperto per puro caso: nonostante quand'ero al liceo in moltissimi avevano letto con entusiasmo La bruttina stagionata, Carmen Covito è stata - ingiustamente - assente dagli scaffali della mia libreria fino a quando in una serata a passeggio in una città di mare, curiosando tra le bancarelle di libri in offerta non sono stata letteralmente "catturata" dall'ambientazione di questo romanzo. Detto, fatto, o meglio: comprato e divorato. L'intreccio tra il giallo d'inizio novecento e il racconto di una Siria contemporanea in cui un gruppetto di ricercatori sottopagati lotta contro il tempo - e la burocrazia - per salvare le rovine addormentate sotto la sabbia mi ha stregato e avvolto come una tempesta di sabbia, pagina dopo pagina, fino alla conclusione, fino a quando tutti i pezzetti non prendono il loro posto, e la storia dell'avventurosa Juliet, così come quella di Cettina, si avviano finalmente al loro destino.
A testimonianza del fatto che, oggi come ieri, gli spiriti avventurosi non muoiono mai - anche quando si scontrano con la realtà del ventunesimo secolo, nella quale sembra non esserci più spazio per il Romanticismo di cent'anni prima.


UN ASSAGGIO:

"Al ristorante i posti sulla terrazza erano tutti prenotati, perciò siamo finiti in una nicchia calda a pianoterra, foderata però di piastrelle e arabeschi. Ho mangiucchiato svogliatamente tutti i mezzeh: le polpette di carne, le polpette di ceci, l'insalata di carne e grano spezzettato, il purè di melanzane, il purè di ceci, le ali di pollo fritte, l'insalata di pomodori e prezzemolo, i cetrioli con lo yoghurt, ognuno con un nome in arabo che mi entrava da un orecchio e mi usciva dall'altro man mano che l'arak mi scivolava in bocca e andava giù, giù, giù che è una bellezza. Dopotutto non è che acqua e anice. Magari più anice che acqua. Per fortuna nessuno ha voluto il piatto forte, io l'avrei mangiato e non avrei avuto più spazio per il budino, profumato alla rosa, mentre il fumo del narghilè è alla mela. Perchè mi sembra buffo? Il cameriere travestito da turco con la fusciacca rossa in vita che ha portato i narghilè era serissimo: ne ha messo uno di qua e uno di là dal tavolo e ha appoggiato sulla tovaglia i bocchini usa-e-getta cellofanati accennando ad un inchino addirittura austero. Non c'è niente da ridacchiare, infatti: a parte me, che ho fatto solo un tiro e a momenti mi strozzo, questa pipa melensa qui la fumano tutti, incluse le signore in gran toilette laminata e grandi messinpieghe agli altri tavoli. Non gliene importa niente di sembrare i poppanti di una piovra?"

giovedì 22 luglio 2010

MARY SHELLEY - Frankenstein


DOVE: tra Svizzera, Germania e Inghilterra, fino al polo nord
QUANDO: Diciottesimo secolo

Ecco un classico che non ci si stanca mai di rileggere, un libro che testimonia quanto opere apparentemente vecchie di due secoli sappiano parlarci con prepotente attualità.
E poi, basta leggere la biografia dell'autrice, per rimanere affascinati dalla sua figura intraprendente ed avventurosa: fuggita di casa diciassettenne, per amore del poeta (e già sposato) Percy Bysse Shelley, viaggiò tra Francia, Svizzera, Germania ed Olanda, trasportata dal tumulto della sua passione ed accompagnata dalla sorellastra Claire. La sua vita è costellata di eventi burrascosi, dalla morte della prima figlia a pochi giorni dalla nascita, a quella della sorellastra Fanny - suicida - e della prima moglie di Shelley, Harriet, a seguito della quale Mary potè sposarlo. E poi, la relazione clandestina tra il poeta e la soffocante sorellastra Claire, sempre al loro seguito, dalla quale nacque una bambina (Allegra) affidata poi a Mary e Percy dopo la morte della madre naturale; la morte del secondo figlio della coppia, William, stroncato da una malattia a soli tre anni durante la loro permanenza a Roma, e della piccola Allegra portata via dal tifo solo pochi anni dopo, fino alla tragica e precoce scomparsa del poeta, durante una gita in barca a vela. Solo a riassumerle, sembra una trama intricata frutto della penna di uno scrittore.
Io poi sono una che dà sempre una sbirciata, quando l'edizione del libro include una biografia dell'autore. Di solito lo faccio al termine della lettura, e di solito mi ritrovo a dire "ah.. ecco perchè ha scritto questo e quest'altro.."
Da una vita piena e burrascosa come quella di Mary, non poteva che sbocciare un romanzo vivo e intenso di emozioni, seppure a qualcuno possa forse risultare ingiustamente ostico familiarizzare con il linguaggio ovviamente "d'epoca".
La storia del libro, poi, è ben nota - e anch'essa affascinante: in una sera di pioggia nella residenza che allora presero nei pressi del lago di Ginevra, Percy Bysse Shelley propose a Mary e agli altri ospiti di scrivere, per scommessa, un romanzo dell'orrore. Nacque così il più classico dei classici horror - assieme, probabilmente, a Dracula di Bram Stoker- la storia dell'infelice creatura nata dall'esperimento del giovane scienziato Frankenstein, il quale, mettendo assieme brandelli di cadaveri seguiva il sogno visionario di iniettare in essi la scintilla della vita.
Solo che l'essere che ne risulta è dotato di intelligenza, curiosità e sensibilità - doti sufficienti a renderlo anche consapevole del ribrezzo che suscita negli esseri umani; è una creatura unica e per questo sola, in un mondo che reagisce alla sua vista con urla di terrore e aperto ribrezzo.Spinto dal loro rifiuto, si trasforma allora in una furia violenta e vendicativa, volgendo in modo particolare il suo odio cieco verso quello che ritiene essere il responsabile della sua infelicità: lo scienziato che gli ha dato la vita, e che, malgrado le sue suppliche, ha deciso di lasciarlo un essere unico - e come tale, solo, su questa terra.
E' così, nell'inseguimento tra scienziato e creatura, si dipana via via il filo della storia in un circolo che si chiude - tra epilogo e antefatto - tra i ghiacci perenni del nord.
Una storia che parte dall'asciutto racconto del dottor Frankenstein per poi condurci, attraverso lo struggente racconto della creatura, in un mondo fosco di solitudine e desiderio di essere parte di qualcosa. E che alla fine lascia un leggero alone di malinconia, perchè tutto sommato, ci si rende conto del paradosso di trovarsi così simili a quell'essere informe fatto di brandelli di carne, piuttosto che al suo brillante creatore.

UN ASSAGGIO:

"Dovrei forse io rispettare l'uomo che mi disprezza? Che egli viva con me in termini di mutua bontà, e, in luogo di male, lo colmerò di attenzioni, e piangerò di gratitudine se si degnerà di accettarle. Ma ciò non può essere: i sensi umani sono barriera insormontabile alla nostra convivenza. Ma la mia non sarà l'abietta sottomissione dello schiavo. Mi vendicherò delle offese subite: se non posso ispirare affetto, diffonderò il terrore, e a te soprattutto, mio arcinemico perchè mio creatore, giuro odio inestinguibile. Bada bene: lavorerò alla tua distruzione e cesserò solo quando ti avrò straziato il cuore tanto da farti maledire il giorno in cui sei nato."

ALESSANDRO BARICCO - Omero, Iliade


DOVE: Troia, Asia Minore
QUANDO: più di mille anni prima della nascita di Cristo.


Tra gli scrittori italiani, Alessandro Baricco è uno dei miei preferiti, per lo stile coinvolgente, per l'ambientazione sempre in bilico tra narrativa e favola, per i suoi personaggi che non puoi non amare. Eppure, nel mio piccolo archivio "virtuale" dei libri, voglio partire da questo, dalla sua idea di trasporre in prosa il celebre poema omerico. Un'idea azzardata, forse; non so quale sia stata, all'epoca dell'uscita, la posizione dei critici e degli umanisti di fronte a questa pubblicazione. Quello che è certo è che leggere l'Iliade in versi fa tutto un'altro effetto - d'altronde, che diventerebbero le poesie di Neruda se qualcuno le mettesse in prosa? Degli splendidi aforismi, certamente, privi però dell'atmosfera sensuale del verso originale.
Eppure, questo libro mi è piaciuto, e molto.
Tanto per cominciare, per chi come me è transitato per il Liceo Classico ed ha incontrato il grande Omero in lingua originale ed in pompa magna, non guasta "rinfrescarsi" la memoria con questa versione più fruibile e altrettanto avvincente. Dopotutto, l'Iliade fa parte delle nostre radici, ma mi rendo conto che non tutti, prendendo il coraggio a quattro mani, si avventurerebbero in un poema epico in versi, anche se corredato di note esplicative. Quindi perchè non "ingolosire" tutti coloro che, magari molto profanamente incuriositi dalla rivisitazione holliwoodiana, timidamente si sono affacciati al racconto mitologico della guerra di Troia?

Vi consiglio, se siete in libreria e dubitate sul senso di questa trasposizione, di scorrere il libro fino al capitolo conclusivo (Un'altra bellezza. Postilla sulla guerra), nel quale Baricco, sinteticamente e con avvincente semplicità, ci parla dell'attualità dell'Iliade in tempi come questi - tempi di guerra. Poche pagine che condensano nel loro succo la nostra storia di esseri umani, continuamente in balia del nostro istinto umano all'autodistruzione. Ecco perchè ha un senso, questa follia di racchiudere in un volumetto di poco più di 160 pagine l'immenso poema epico, ecco perchè è giusto che l'Iliade venga riproposta anche a noi uomini del ventunesimo secolo, perchè poco è cambiato, nell'animo degli uomini, dai tempi in cui il sole abbacinante faceva scintillare la terra arsa sotto i calzari dei soldati greci.
Nella sua introduzione, poi, Baricco spiega accuratamente come e perchè è nato questo libro, racconta il suo paziente lavoro di "sartoria letteraria", nel tagliare ed adattare il testo, con la cautela propria di chi maneggia un'opera di tale maestosa antichità. Il fine, quello di ottenere un testo sufficientemente moderno da rendere possibile la lettura dell'intero poema in uno spettacolo teatrale, è poi tutto sommato il fine stesso del poema d'origine: quello di trasmettere, oralmente, la cultura ed i valori di un popolo.


UN ASSAGGIO:
"Se ne stava ormai per uscire di nuovo dalle mura e tornare in battaglia quando Andromaca lo vide e gli andò incontro per fermarlo, e io dietro di lei, con il bambino tra le braccia, piccolo, tenero, l'amato figlio di Ettore, bello come una stella. Ci vide, Ettore. E si fermò. E sorrise. Questo l'ho proprio visto coi miei occhi. Ero lì. Ettore sorrise. E Andromaca gli andò vicino e lo prese per mano. Piangeva e diceva ' Infelice, la tua forza sarà la tua rovina. Non hai pietà di tuo figlio, che è ancora un bambino, e di me, sventurata? Vuoi tornare là fuori, dove gli Achei ti balzeranno addorro, tutti insieme, e ti uccideranno?". Piangeva.

mercoledì 21 luglio 2010

AMY TAN - Il circolo della fortuna e della felicità


DOVE: tra Cina e Stati Uniti
QUANDO: tra gli inizi del '900 e gli anni '70

Il mio primo approccio con Amy Tan è stato piuttosto casuale; qualche anno fa, volendo "rinnovare" il mio inglese un tantino arrugginito, chiesi ad una cara amica - che allora era studentessa di Lingue - di prestarmi qualche libro in lingua originale. E' stato così che mi sono appassionata a The bonesetter daughter (La figlia dell'aggiustaossa), di questa scrittrice americana ma di origini cinesi. Nonostante qualche intoppo con la lingua e la necessità di avere a portata di mano il mio fedele dizionarietto, il libro mi ha talmente incantato che mi ero riproposta di rileggerlo in italiano, ma una volta in libreria mi sono detta: perchè invece non leggere prima qualcos'altro della stessa autrice?
Detto, fatto: sono uscita dal negozio portando con me questo sorprendente pezzetto di Cina...
La storia è piuttosto articolata, ripercorrendo le vite di otto donne - quattro mamme e quattro figlie - tra una Cina rurale e pittoresca e un'America razionale e "moderna". A fungere da spunto, la storia di Jing-Mei, che dopo la morte della mamma Suyuan prende - un po' di malavoglia - il suo posto al tavolo del Mah-jong; da questo episodio si dipana il filo conduttore dell'intero libro, il contrasto tra due generazioni e due culture, le mamme rimaste impigliate nel folklore e nelle superstizioni di una Cina che sta scomparendo e le figlie, combattute tra il folle desiderio di rinnegare le proprie origini e il loro "essere cinesi".
Amy Tan ci porta a spasso in un oriente tanto lontano da tingersi di fiaba, un oriente in cui le quattro coraggiose mamme - e le loro stesse mamme - vivono la loro giovinezza, tra folklore e magia popolare, barcamenandosi come possono tra gli orrori della guerra ed i vincoli spesso incomprensibili dell'onore e del rispetto; e poi via, attraverso l'oceano, fin negli USA scintillanti di vetrate e grigi di cemento, una nuova terra carica di promesse nella quale le quattro donne hanno piano piano messo radici. Salvo poi trovarsi davanti delle figlie quasi estranee, cresciute malgrado tutti i loro sforzi secondo i principi americani ma che, una volta adulte, riscoprono lentamente le loro radici, nella semplicità di piccoli, preziosi gesti, come quello di preparare i piatti della tradizione cinese.
Splendida in questo senso la descrizione della zia An-Mei intenta a preparare i wonton, o il racconto - un intero capitolo - del pranzo a base di granchi per il Capodanno Cinese, che ci porta tra gli odori e i colori del mercato di Chinatown, nella folla chiassosa in cerca della "migliore qualità".
Per questo amo questa scrittrice, per la capacità di evocarti, con pochi tratti, un'intera scena e per la semplicità con cui, da un capitolo all'altro, il suo stile vira bruscamente, passando dal racconto delle figlie a quello delle madri. Alla fine del libro, resta una vaga sensazione di tenerezza per queste quattro donne, trapiantate in un occidente che faticano a comprendere, guardandolo nel contempo mentre, come una marea, cerca di portare via le loro figlie.

UN ASSAGGIO:
"'Questa è la camera degli ospiti', mi ha detto Lena con quel suo fiero piglio americano. Ho sorriso. Ma secondo lo standard cinese la camera degli ospiti è la camera da letto migliore della casa, quella dove dormono lei e suo marito. Io non glielo dico. La sua saggezza è come uno stagno senza fondo. Tu ci getti delle pietre che affondano subito nell'oscurità, e spariscono nel nulla. I suoi occhi che ti guardano non riflettono niente. Io lo penso tra me e me anche se amo mia figlia. Io e lei abbiamo diviso lo stesso corpo. C'è una parte della sua mente che è parte della mia. Ma quando è nata, è schizzata fuori dal mio corpo come un pesce scivoloso, e da allora ha continuato a nuotare lontano da me. Per tutta la vita l'ho guardata come se fossi su un'altra spiaggia. E adesso devo dirle tutto quello che riguarda il mio passato. E' l'unico modo per penetrare nella sua pelle e trascinarla fin dove può essere salvata."

PERCHE' UN BLOG SUI LIBRI?

Vengo da una famiglia in cui la lettura è qualcosa di molto più che un semplice obbligo scolastico. Leggere non mi è mai pesato, anzi, è qualcosa che amo fin da quando, per la prima volta, ho scoperto l'incanto di nascondere parole, emozioni e luoghi in tante piccole letterine, ordinatamente disposte una accanto all'altra secondo rigidi schemi grammaticali; l'idea che si possa condensare un pezzetto di mondo in una frase mi affascinava.
La mia nonna paterna - credo abbia la terza elementare, o giù di lì - da piccola mi raccontava le avventure di Ulisse e la storia travagliata di Renzo e Lucia, che avrei poi, col tempo, imparato a scandagliare e dissezionare al Liceo classico, fino a perderne la visione d'insieme; mi leggeva le poesie di Pascoli e di Leopardi con una tranquillità che non aveva niente a che vedere con l'aura di reverenziale pesantezza che li avvolge nella visione di molti studenti. In poche parole, ho imparato da lei che i libri vanno ascoltati col cuore, che bisogna lasciarsi travolgere e trasportare dalle parole scritte, assaporandole senza paura.
E il mio nonno paterno - quinta elementare, o poco più - ha saputo riassumere tutto ciò in una semplice quanto romantica filosofia di vita, che recita più o meno così: "Quando ho voglia di viaggiare, apro un libro. Scelgo prima il posto in cui voglio andare, prendo il libro giusto e mi ci lascio trasportare, standomene comodamente seduto in poltrona."
Ecco, dunque, cosa significa per me leggere: lasciare che intorno a me tutto svanisca e infilarmi in una sorta di porta segreta che mi conduce là dove ho scelto di farmi condurre, sia esso l'Ottocento Inglese di Jane Austen o il Giappone contemporaneo di Murakami Aruki.
L'intento del blog non è quello di scrivere critiche - non ne avrei certo la competenza; è semplicemente quello di raccontare, in breve, quello che alcuni libri mi hanno trasmesso.

E se qualcuno avrà voglia di condividere con me i suoi commenti, ne sarò ben lieta.