giovedì 19 aprile 2018

HAYDEN HERRERA - Frida Kahlo

DOVE: Messico
QUANDO: Tra gli anni '30 e gli anni '50

Essendo una lettrice vorace, non c'è stato un momento della mia vita che non sia stato accompagnato da un libro sul comodino.
Da quando io ricordi, terminato un libro ne è sempre venuto un altro, ed un altro, ed un altro; va da sè che ogni momento saliente della mia vita, in un modo o nell'altro, può essere associato ad un libro che, in quella fase della mia vita, mi teneva compagnia.
Ebbene: la biografia di Frida Kahlo resterà impresso nella mia memoria come il libro che stavo leggendo quando ho scoperto che sarei stata mamma, stavolta di una bimba. Non so perchè, ma ho vissuto la cosa come un buon auspicio; Frida col suo temperamento passionale, il suo essere sè stessa a dispetto delle convenzioni, il suo fascino fuori dai canoni non può che essere il simbolo di un certo modo di vivere la femminilità.
E io, manco a dirlo, l'ho adorata fin dalla prima pagina.
Conoscevo la sua storia a grandi linee; e questa biografia corredata da fotografie delle sue opere consente di immergersi a 360 gradi nella vita di quella che, a tutti gli effetti, è una delle più straordinarie figure femminili del secolo scorso.
L'infanzia, l'incidente che le stravolge l'esistenza, l'amore intenso che la legò tutta la vita, malgrado tutto, al grande Diego Rivera, il suo lento farsi strada nel panorama artistico mondiale, fino alla sua morte avvenuta nel 1954; passo dopo passo, accompagnandoci con uno stile descrittivo e coinvolgente, Herrera ci accompagna nella vita di questa donna straordinaria e nella sua altrettanto straordinaria interiorità, attraverso stralci dei suoi diari.
L'ho letto in fretta, quasi divorandolo, immergendomi nei dettagli delle sue opere lasciando che esse parlassero di lei, del suo doloroso rapporto con la maternità mancata, con il passato, con l'amore per un uomo dal carattere complesso, seguendola nei suoi trasferimenti dentro e fuori dal Messico, trascinata dal carattere straordinario di una donna forte, che anche quando il dolore la schianta si rialza sempre e comunque, tenacemente attaccata alla sua vita.
Con lei, conosciamo la vera essenza di un Messico lontano, colorato, passionale, fiero delle proprie tradizioni. Entriamo nella sua casa di Coyoacan (Città del Messico), ricca di colore, di personalità, di vita, divenuta poi inevitabilmente  un museo dedicato alla pittrice (qui, se volete, maggiori dettagli e qualche immagine).
Viaggiamo attraverso la sua vita breve ed intensa, affezionandoci a lei - come si poteva non amarla, straordinariamente ricca di sfaccettature com'era, piena di vita e di colore e di passioni contrastanti? - e seguendola anche nei suoi momenti di fragilità, quando il dolore, la prospettiva di affrontare l'ennesimo intervento sul suo corpo martoriato, il tradimento dell'adorato Diego la piegavano senza mai spezzarla.
E manco a dirlo, pagina dopo pagina, Frida diventa un modello. Sopravvissuta giovanissima ad un terribile incidente si ritroverà improvvisamente intrappolata in un corpo ricucito, rappezzato, ricomposto. Con una colonna vertebrale spezzata e riassemblata ed una gamba anch'essa malridotta. Una ragazza piena di vita, di prospettive per il futuro che si ritrova, nel fiore della sua esistenza, ad essere invalida. Che, come se ciò non bastasse, vede allontanarsi da sè, in quegli stessi anni, il suo primo amore. Eppure, da tutto questo dolore, da tutta questa sofferenza, Frida insegna che si può rinascere, letteralmente. E diventare più forti, più consapevoli, più combattivi.
Una storia ricca, dolorosa, passionale, intensa, così come i suoi quadri, dalla quale non si può che uscire se non in rispettoso silenzio, portandosi dietro brandelli di sensazioni appiccicate addosso come tatuaggi. Un modello di donna nuovo, presente a sè stessa, indipendente eppure dolorosamente attaccata al suo uomo, coinvolgente, sempre ripiegata su sè stessa, a scandargliare in profondità, nella sua anima, le radici del suo dolore, e allo stesso tempo sempre aperta verso l'esterno, ricettiva nei confronti del mondo, della vita, del fermento politico rivoluzionario.
Un viaggio che mi ha lasciato senza fiato, e piena di rispetto verso la straordinaria personalità di una donna estremamente attuale. E che ha ancora tanto, tanto da dire.

UN ASSAGGIO:

"A partire dal 1925 la vita di Frida fu una lotta all'ultimo sangue contro il lento decadimento. Non la abbandonarono più la persistente sensazione di fatica ed i dolori costanti alla colonna vertebrale e alla gamba destra. Ci furono periodi in cui si sentiva più o meno bene e il fatto che zoppicasse si notava appena, ma a poco a poco il suo corpo andò disintegrandosi. Olga Campos, un'amica di famiglia che ha conservato le sue cartelle cliniche dai primi anni di vita al 1951, dice che Frida subì almeno trentadue interventi chirurgici, perlopiù alla spina dorsale e al piede destro, prima di capitolare, ventinove anni dopo l'incidente. 'E' vissuta morendo' ha detto lo scrittore Andres Henestrosa, un altro vecchio amico."

venerdì 13 aprile 2018

ORHAN PAMUK - Il mio nome è Rosso



DOVE: Istanbul, Turchia
QUANDO: Fine del '500

Un libro strano, particolare, che per certi versi - la lentezza con cui scorre la storia, le lunghe digressioni "tecniche" e storiche, i dialoghi talvolta lenti da seguire - ha richiamato alla mia mente Il Nome della Rosa di Eco.
In entrambi i casi, un delitto efferato (più di uno, a dire il vero, nell'abbazia benedettina) maturato in una cerchia ristretta di individui. In entrambi i casi, l'ambientazione è strettamente legata alla conservazione della cultura: da un  lato gli amanuensi benedettini, dall'altro i miniaturisti al servizio del sultano. In entrambi i casi, un'indagine scandita dai ritmi lenti di un'epoca lontana dalla nostra.
Più o meno tre secoli di distanza tra le due storie, oltre a parecchi chilometri, ma una sorta di atmosfera che li accomuna: cupa, lenta, claustrofobica e asfittica.
Storie di tempi e luoghi lontani, di invidie represse, di sangue, di lunghi dibattiti tecnici che possono- per quanto a noi possa sembrare assurdo - sfociare in violenza.
Nel caso di Eco - non sveliamo troppi dettagli, si tratta pur sempre di un giallo, per quanto di fama amplissima - il dibattito sulla commedia e il riso, che ruota attorno alla Poetica di Aristotele. Nel caso dei miniaturisti di Pamuk, la diatriba su quale sia lo stile migliore da adottare, se quello tradizionale tramandato nei secoli - che prevede la visione del mondo dall'alto, come lo vedrebbe Allah - o quello nuovo importato dagli "infedeli" veneziani, che sposta l'occhio del disegnatore a terra, e adotta l'espediente della prospettiva.
In entrambi i romanzi, lunghe pause di digressioni tecnico-filosofiche che rallentano la storia e talvolta stentano a farne seguire il filo, perlomeno ad un lettore poco "presente".
Per il resto, due storie assolutamente differenti sul piano umano dei protagonisti.
Di Eco, del giovane Adso da Melk e dell'ex inquisitore Guglielmo da Baskerville ho già parlato in una precedente recensione; in questo caso, invece, la storia è quella di Nero, giovane miniaturista innamorato perdutamente fin da ragazzo della bella Sekure, che rientra ad Istanbul dopo dodici anni di assenza trovandola sposata e madre di due amatissimi bambini.
Il marito di lei, però, è disperso in guerra, il che riaccende la speranza di Nero di poterla riconquistare; se non fosse che la stessa speranza infiamma Hasan, fratello del marito scomparso, anch'egli innamorato di Sekure e fortemente intenzionato a farne sua moglie.
In mezzo lei, la bellissima ed indecisa Sekure, che ahimè con la complicità di una vecchia venditrice di corredi - e organizzatrice di incontri più o meno clandestini, e di matrimoni - tiene accese entrambe le fiamme intrattenendo con entrambi una corrispondenza seppure sporadica.
Tutto intorno, una caotica Istanbul, con i suoi viottoli fangosi, i mendicanti coperti di cenci, il profumo delle spezie, i piccoli giardini ombrosi delle case, il succo di amarena a dar refrigerio nelle ore più calde.
Quando poi, la calma confusione di Istanbul viene scossa dall'omicidio di un giovane miniaturista del sultano, l'onda d'urto non può che abbattersi anche sulle loro vite, poichè il padre di Sekure - nonchè zio di Nero- è anch'egli un noto miniaturista ed era per lui che la vittima stava lavorando ad un libro commissionato dal Sultano.
E sarà proprio lui, l'anziano zio Effendi, a chiedere a Nero di fare luce sul delitto in via ufficiosa, indagando ed interrogando gli altri miniaturisti, per dipanare la questione. Manco a dirlo, in nome dell'amore per Sekure, Nero accetta ed entra in punta di piedi in quest'avventura, muovendosi con prudenza tra i miniaturisti e le loro sanguinose invidie covate per anni, cercando di non attirare troppo l'attenzione e cercando di dipanare una matassa più intricata del previsto.
Cosa si nasconde dietro la ferocia dell'assassino, che torna a colpire prima che Nero abbia potuto far luce sull'accaduto?
Un libro non certo semplice - se volete accostarvi a Pamuk, vi consiglio piuttosto questo, già recensito tempo fa - ma che, esattamente come accaduto con il Nome della Rosa, sebbene il ritmo fosse lento e lo stile talvolta contorto, e sebbene le lunghe digressioni tecniche mi facessero perdere un po' il filo, mi ha comunque tenuta incatenata fino all'ultimo con l'atmosfera assolutamente inconsueta.
Un mondo lontano, nuovo, maestosamente malinconico, una città già immensa, fatta di contrasti tra il lusso straordinario del palazzo del Sultano e le strette stradine in cui alloggia il popolo, che di quell'invisibile Sultano vive in devota adorazione. Una terra ed una cultura sconfinata che comincia a scricchiolare sotto l'urto dell'innovazione portata da Occidente, da quei veneziani infedeli che anzichè restarsene a casa propria hanno il viziaccio di viaggiare verso Oriente, portando con sè pericolose deformazioni artistiche, accendendo contrasti che infiammano il dibattito artistico.
Un popolo vivo e vibrante, che si affolla nei mercati intrisi di odori e si disperde tra le viuzze umide, dove le donne scivolano via silenziose avvolte nei loro mantelli, e gli uccelli invisibili cantano fra i rami.
Un viaggio strano, distorto, in una storia dal sapore di sangue, amara, cupa eppure affascinante.
Lontana, questo è certo, dalle rotte conosciute.

UN ASSAGGIO:

"Non mi lamento del fatto che i denti mi siano caduti come ceci nella bocca piena di sangue, nè che il mio volto sia talmente fracassato da essere irriconoscibile, nè di essere rimasto schiacciato in fondo a un pozzo, mi lamento perchè mi credono ancora vivo. Sapere che chi mi vuole bene pensa continuamente a me immaginando che stia perdendo tempo in stupidaggini in qualche angolo di Istanbul, oppure che sia andato dietro a una donna, aumenta il dolore della mia anima inquieta. Basta! Trovate il mio cadavere, seppellitemi e fatemi un funerale con tutte le necessarie preghiere rituali! Ma soprattutto che venga scoperto il mio assassino! Sappiate che finchè non si scopre quel vigliacco, anche se sepolto nella più bella delle tombe, io attenderò girandomi inquieto per la tomba e insinuerò in tutti voi la miscredenza. Trovate quel figlio di puttana del mio assassino e io vi racconterò tutto quello che vedrò nell'aldilà!"

venerdì 6 aprile 2018

JANE AUSTEN - Ragione e Sentimento

DOVE: Tra il Sussex e Londra, Inghilterra
QUANDO: Inizio dell'800.

Rieccomi qui, finalmente, dopo mesi di assenza, nel mio caro, carissimo blogghino (eh sì, continuo a rubare questa espressione di Eva perchè trovo che calzi a pennello per descrivere questo piccolo, caldo spazio virtuale in cui parlare dei miei amatissimi viaggi letterari :-) )
Assenza dovuta, ovviamente, al fatto che al di fuori del blogghino esiste una vita reale e pressante, che spesso reclama le nostre attenzioni.
Nel mio caso, una vita che negli ultimi mesi è stata stravolta - in positivo - dalla scoperta che diventerò di nuovo mamma. Ho aperto questo spazio millenni fa, quando ero una neomamma disoccupata, insicura ed in crisi, con una laurea alle spalle e scoraggiata dalle porte in faccia di numerosi colloqui andati male. Da allora, ne è passata di acqua sotto i ponti. Una separazione, due lavori cambiati, tanta fatica, tanti momenti di sconforto, tante domande ed altrettante "pause" dal mio piccolo spazio sul web. Che però, puntualmente, ho trovato sempre pronto ad attendermi.
E rieccolo qui, il mio blogghino, dopo gli ultimi mesi in cui conciliare il lavoro con un figlio, un nuovo compagno, due micioni, un cane e la stanchezza mostruosa di una seconda gravidanza alla soglia dei quaranta (ahimè, nove anni fa il mio fisico reggeva meglio ^_^ ) si è rivelato più arduo del previsto.
In questi mesi ho letto, sempre e comunque. Fortunatamente, riesco sempre a ritagliare spazio per i miei amati libri. Leggo mentre mi asciugo i capelli, leggo mentre mi depilo, leggo mentre aspetto mio figlio fuori dalla palestra di karate.
Dunque, mi ritrovo ora con una pila disordinata di libri che vorrei commentare e condividere, poco tempo e sempre tanta tanta stanchezza. In ogni caso, da qualche parte dovrò pur cominciare; ed ho scelto di cominciare da qui, da uno degli ultimi che ho letto in ordine cronologico. La mia cara, amata, amatissima Jane Austen, che mi ha tenuto compagnia in tanti pomeriggi del liceo ( che ricordi che ho, dei miei viaggi mentali nella verde Inghilterra di inizio Ottocento, standomene sdraiata nella mia cameretta!) e che ho sentito il bisogno di recuperare adesso. Forse perchè correndo qua e là tra spesa, lavoro, karate, fermata dello scuolabus, pulizie di casa sentivo che lei avrebbe saputo darmi quella boccata di aria di cui avevo bisogno.
Fermati e respira, sembra dirti la zia Jane. Entra, siediti accanto al camino, in un angolo, sorseggia il tuo tè e lascia che io ti racconti una storia.
Tra le tante - manco a dirlo, in quei pigri pomeriggi adolescenziali di cui sopra ho letto TUTTE le sue opere - chissà perchè ho sentito il bisogno di recuperare proprio quella delle sorelle Dashwood, ed eccomi qui, nel verdeggiante Sussex, in un piccolo cottage modesto ma curato, ad ascoltare quello che, a distanza di anni, Jane sembra volermi dire.
Le Dashwood, dunque. La sorella minore, Margaret, lasciata perlopiù in ombra, e le due protagoniste del romanzo: Elinor, la maggiore, lucida, razionale, calma. E Marianne, la seconda, travolgente, passionale, emotiva. Entriamo nelle loro vite di fanciulle di epoca vittoriana, fatta di educazione, di convenzioni più o meno rigide, di visite di cortesia scandite con regolarità quasi scientifica, di sonate al pianoforte, passeggiate sui sentieri placidi delle verdi colline inglesi e della ricerca del vero amore, del matrimionio o di entrambi.
Un mondo apparentemente lontano anni luce dal nostro, fatto talvolta di donne dal taglio frivolo e scialbo - come Fanny, la giovane moglie del fratello delle tre ragazze, o come Lucy Steele, avviluppatasi a Elinor in una sorta di amicizia a senso unico, che la signorina Dashwood ricambia con ferma cortesia.
Eppure, un mondo attuale, sotto certi aspetti che Jane non tarda ad illuminare con la sua caratteristica, pungente ironia: l'ipocrisia di talune forme di ostentata generosità (sarebbe complicato riassumerlo qui in poche righe, vi rimando solo alla già menzionata cognata Fanny, ed alle sue complesse manovre per sottrarre alle tre sorelle del marito la maggior quantità possibile di denaro e di beni, pur continuando a dimostrare a sè stessa di esserne invece una grande benefattrice), l'incostanza delle relazioni umane, la debolezza di carattere che priva alcuni della capacità di imporsi. E poi, le rigide briglie delle convenzioni sociali che, nel 2018, siamo riuscite solo in parte ad allentare, il giudizio del prossimo sempre in agguato, il mito mai tramontato del buon partito, un certo stereotipo di donna che tarda, anch'esso, a tramontare.
In mezzo a tutto questo, si muovono le due protagoniste, entrambe costrette a far fronte ad un amore disilluso, ciascuna coi propri mezzi. La tempestosa Marianne dando sfogo al suo dolore, piangendo lacrime di rabbia fino a sfiancarsi; la razionale Elinor, invece, col silenzio, la calma, l'analisi lucida, la compostezza, l'accettazione masochistica.
Quale delle due avrà ragione? Qual è il modo migliore per affrontare la vita? Prenderla di petto, lasciandosi andare ad entusiasmi smodati e dando sfogo altrettanto violento al dolore?
O affrontarla con distacco, senza mai eccedere nelle emozioni, senza lasciar trasparire all'esterno il proprio dolore?

Ad entrambe, la vita riserverà piccoli colpi di scena e un gran finale, per arrivare al quale però dovranno penare non poco, in un frusciare di vesti e lunghe, lunghissime conversazioni dallo stile talvolta un po' arzigogolato ma dal sapore assolutamente "vintage" che chi, come me, ama la Austen non può non adorare.
E poi, la sorpresa di scoprire che, malgrado nei miei ricordi fosse Marianne il personaggio con cui all'epoca della prima lettura mi identificai, rileggendolo ora sento invece di appartenere più al mondo cauto di Elinor.
Miracoli della lettura, per cui le stesse parole rilette a distanza di venti anni sanno darti emozioni diverse.

UN ASSAGGIO:

"Marianne si sveglio l'indomani tutta lieta. La delusione della sera precedente sembrava dimenticata nell'attesa di quello che poteva capitare quel giorno. Avevano finito da poco la colazione quando la barouche della signora Palmer si fermò alla porta, e pochi minuti dopo ella entrò ridendo nella stanza; così felice di rivedere tutte che non si capiva se traesse maggior piacere dal ritrovarsi con sua madre o con le signorine Dashwood; così sorpresa del loro arrivo in città, quantunque era cosa che si era sempre aspettata; così stizzita che avessero accettato l'invito di sua madre dopo aver declinato il suo ma allo stesso tempo non le avrebbe mai perdonate se non fossero venute!
'Il signor Palmer sarà felice di vedervi' aggiunse 'indovinate un po' che ha detto quando ha saputo che venivate con la mamma? .. Adesso l'ho dimenticato, ma era una cosa tanto buffa!'
Dopo un paio d'ore trascorse in quelle che sua madre chiamava 'quattro chiacchiere fra noi', in altre parole, in ogni specie di domande su tutte le loro conoscenze da parte della signora Jennings, e di risate senza ragione da parte del signor Palmer, quest'ultima propose che andassero tutte insieme in certi negozi dove aveva intenzione di recarsi quella mattina; al che la signora Jennings ed Elinor acconsentirono subito, avendo acquisti da fare anch'esse; e Marianne, dopo un primo rifiuto, fu indotta ad accompagnarle."