giovedì 6 dicembre 2018

DINO BUZZATI - La boutique del mistero

DOVE: Italia
QUANDO: in diversi tempi, tra gli inizi del secolo scorso e gli anni '50.

Ancora a casa in maternità, continuo a sfruttare le lunghe sedute di allattamento per leggere ^_^ ; ed ho approfittato, tra le altre cose, per recuperare un autore dallo stile straordinario, scoperto ahimè troppo tardi.
Dino Buzzati è stato per anni solamente un nome allineato tra gli altri nomi su un piccolo scaffale a casa dei miei nonni - la libreria adiacente a quello che era stato il letto di mio padre da bambino, la stessa libreria a cui io mi affacciavo con curiosità infantile, innamorata com'ero dei libri e degli straordinari viaggi che essi contenevano, silenziosamente nascosti fra le pagine.
Dicevamo, dunque, Dino Buzzati. Poliedrico personaggio letterario, definito "il kafka italiano", autore straordinario rimasto ahimè accantonato, sebbene il suo stile e le atmosfere delle sue opere lo rendano tuttora godibile ed affascinante. Rimando come sempre a Wikipedia per approfondirne la vita e gli aspetti professionali; per quanto mi riguarda mi limito qui, come di consueto, a proporre una piccola proposta di viaggio ^_^, per coloro i quali volessero conoscerlo.
Tanti i titoli possibili; personalmente consiglio di iniziare da qui, da questa piccola raccolta di racconti brevi dal sapore surreale, talvolta amaramente ironico,spesso inquieto. Ben trentuno storie brevi, trentuno piccoli viaggi che in un certo senso mi hanno richiamato alla mente Paese d'Ottobre di Bradbury, con le loro atmosfere continuamente sospese a metà tra concreto e fantastico. Qui, con il suo stile dal sapore vintage ma dalla prosa diretta, semplice, dal grande impatto descrittivo, veniamo condotti per mano attraverso piccoli spicchi di un'Italia scomparsa: talvolta, in un mondo contadino ancora pregno di superstizioni (leggete per esempio Il cane che ha visto Dio; deliziosa e incredibilmente moderna descrizione di come talvolta la fede religiosa possa sfociare in risvolti amaramente ridicoli ), altre volte, nelle grandi metropoli ancora in fieri, in una fiera e decadente borghesia ancorata saldamente alle sue sciocche convenzioni, come in " Eppure battono alla porta".
Insomma, viaggiamo attraverso i tanti aspetti di un' Italia antica, sempre su quel filo sottile che separa la realtà dall'irrealtà, in una sorta di bruma nebbiosa che confonde i contorni delle cose finendo per smarrirci. In "Sette piani", ad esempio, veniamo rinchiusi in quella che appare una luminosa ed affidabile clinica, per ritrovarci poi invischiati in una storia claustrofobica ed angosciosa. In "Lo scarafaggio" veniamo invece trasportati in un appartamento cittadino come tanti, nel quale però in una notte silenziosa qualcosa di inquietante comincia ad aleggiare. Con "I Santi" veniamo poi trasportati al di fuori del tempo e dello spazio, in un piacevole paradiso in cui i santi che veneriamo vivono placide esistenze da impiegati - anche qui, una storia deliziosamente ironica sulle nostre esistenze piccole di uomini miseramente attaccati alle superstizioni. E ancora, in "Qualcosa era successo", di nuovo veniamo trasportati in una storia in cui l'angoscia va crescendo, rinchiusi in un treno che sferraglia correndo verso l'Italia meridionale.
Insomma, piccoli mondi racchiusi in poche pagine, ciascuno con la sua atmosfera, ciascuno con il suo sapore preziosamente "vintage" ciascuno con un messaggio senza tempo. Perchè lì, in quelle pagine, in quelle storie apparentemente scollate da ciò che è reale, Buzzati racconta noi, gli uomini di oggi come quelli di ieri, con le nostre convenzioni sociali, le nostre paure, soprattutto con la nostra fede religiosa che finiamo spesso per sfumare nella cieca superstizione. Ci sono le nostre paure, le inquietudini che celiamo nei meandri del nostro animo e che la mente gioca a tirar fuori quando, nel sonno, diventiamo più vulnerabili. Ci sono le nostre domande sul senso del nostro affannarci attorno alle piccolezze della vita, ci sono i nostri rancori covati per anni e la nostra struggente materialità.
Un autore che ha assolutamente ancora tanto, tanto da raccontarci.

PS: Per chi volesse, invece, qui ci interroghiamo sul senso dei lit-blog, sull'onda di un vecchio post degli Alberi da Libri...

Aggiornamento post 29/1/2019: ci tengo a segnalare su La Repubblica di ieri, un bellissimo articolo su questo autore, per tutti coloro che volessero approfondirne la conoscenza...

UN ASSAGGIO:

"Era sera e la campagna già mezza addormentata, dalle vallette levandosi lanugini di nebbia e il richiamo della rana solitaria che però subito taceva (l'ora che sconfigge anche i cuori di ghiaccio, col cielo limpido, l'inspiegabile serenità del mondo, l'odor di fummo, i pipistrelli e nelle antiche case i passi felpati degli spiriti), quand'ecco il disco volante si posò sul tetto della casa parrocchiale, la quale sorge al sommo del paese.
All'insaputa degli uomini che erano già rientrati nelle case, l'ordigno si calò verticalmente giù dagli spazi, esitò qualche istante, mandando una specie di ronzio, poi toccò il tetto senza strepito, come colomba. Era grande, lucido, compatto, simile ad una lenticchia mastodontica; e da certi sfiatatoi continuò ad uscire zufolando un soffio. Poi tacque e restò fermo, come morto.

giovedì 15 novembre 2018

GABRIEL GARCIA MARQUEZ - Cent'anni di Solitudine


DOVE: A Macondo, minuscolo e afoso villaggio sudamericano
QUANDO: a cavallo di un secolo, in un tempo non specificato tra la fine dell'800 e il '900



Parlando dell biografia di Frida Kahlo, più o meno un anno fa, ho scritto di come ci siano libri, per me, legati indissolubilmente ad eventi della mia vita, e di come quello sarebbe rimasto impresso della mia memoria come il libro che stavo leggendo quando ho scoperto di essere incinta prima, e che avrei avuto una bimba poi.
Ecco, allo stesso modo Cent'Anni di Solitudine di Gabriel Garcia Marquez - che avevo a dire la verità già letto anni fa, durante l'università - resterà il libro che mi ha accompagnato durante il travaglio.
Questa foto l'ho scattata a qualche ora dall'inizio dell'induzione, quando ero sola in ospedale con i primi doloretti e ingannavo il tempo cercando di concentrarmi sulla lettura. Era una sera di luglio calda e appiccicosa, perfetta per entrare nello spirito e nel clima di Macondo.
La trama è complessa, i personaggi sono tanti e intrecciati da parentele intricate, ma il viaggio è davvero impagabile (non a caso quest'opera valse al suo autore il Premio Nobel nel lontano 1982).
Dunque, Macondo e i Buendia. Il primo, uno sperduto villaggio nato per caso, per l'ostinata impenetrabilità delle foreste e delle paludi sudamericane che impedirono ai sognanti viaggiatori di giungere, come speravano, sulla costa. I secondi, una articolata famiglia che con la storia di Macondo è strettamente intrecciata fin dalla sua fondazione, una famiglia in cui le figure di spicco sono perlopiù le donne, dominate dalla tenacia e dalla passione, ciascuna con le proprie sfaccettature, mentre gli uomini, rimasti negli anni ancorati ad una bizzarra tradizione di battezzarli con i nomi di Josè Arcadio o Aureliano - o piccole variazioni sul tema - sembrano restare appesi non solo ad essi, ma anche ad alcuni stereotipati destini che ciclicamente sembrano condannarli all'isolamento mentale o fisico, alla rassegnazione, alla sconfitta.
Per comodità, a chi volesse partire per questo straordinario e lungo viaggio, consiglio di tenere a portata di mano una piccola guida genealogica alla famiglia Buendia, sul tipo di questa:

fonte: http://anna-lotus.tumblr.com/post/27555084597/albero-genealogico-famiglia-buendia-centanni-di

perchè facilmente si smarrisce la via, tra i contorti intrecci di passioni che sbocciano sotto il sole gocciolante di Macondo, e gli altrettanto contorti tentativi di nascondere - talora - le reali parentele per salvaguardare le convenzioni sociali. 
Albero genealogico alla mano, immergiamoci dunque in questo mondo afoso, umido, di case dalle porte spalancate per far circolare il vento sottile durante la siesta, di notti stellate e piene di passioni, di febbri divoranti, di piogge torrenziali che oscurano il villaggio per settimane, un piccolo microcosmo isolato dalla civiltà che, neanche tanto lontano, in quei lontani anni silenziosamente progredisce, e che a Macondo non arriva se non di striscio, portando con sè probabilmente tutto ciò che di peggio ha da offrire, a cominciare dai gringos che impiantano una fiorente industria bananiera retta sulle spalle degli operai locali, per passare alla sanguinosa repressione delle rivolte sociali, ed alla guerra.
Malgrado tutto, malgrado dunque il mondo insinui di tanto in tanto i suoi tentacoli di modernità fin nelle polverose strade di Macondo, richiedendo per esempio ai suoi allibiti abitanti di dipingere di azzurro le facciate delle abitazioni in ossequio ad una festa nazionale della quale questi ignorano perfino l'esistenza, o portando assieme ad una pianola - la prima che si fosse mai vista a Macondo, orgoglio di casa Buendia , un azzimato ed impeccabile professore di musica dai pantaloni attillati, presto divenuto scintilla di passioni ed ostilità mai sopite negli anni a venire, malgrado tutto ciò, dunque, nulla sembra mutare.
A tutte le bizzarrie del progresso, all'autorità del governo centrale, perfino alla guerra, Macondo resiste con sonnolenta pacatezza, con rassegnata noncuranza, lasciando correre ciò che deve correre e restando un piccolo universo a sè, orbitante intorno alle vicende straordinarie e sempre in bilico tra reale e irreale, della folta famiglia Buendia. 
A cominciare da Ursula, perno della casa e della famiglia, una donna tosta, fondatrice della città ed amministratrice instancabile della famiglia e della casa per oltre cento anni, oltre che ideatrice di una fiorente fabbrica di animaletti di caramello, unica industria nata sul suolo di Macondo prima dell'avvento dei gringos sudaticci. Dopo di lei, una fitta schiera di donne dalla bellezza sconvolgente, alcune sue dirette discendenti, altre prese sotto la sua ala protettrice ma tutte accomunate da un fascino quasi stregato, da personalità spesso bizzarre, dalla capacità di tenersi ostinatamente attaccate alle passioni che ardono loro nel petto. E, accanto ad esse, gli uomini, con le loro piccole fissazioni maniacali, con la loro passione per i prodigi portati in città dalle carovane di zingari, con la loro capacità di amare appassionatamente le donne più belle, conquistandole anche quando sembrano irragiungibili, con la loro solitudine atavica, con il dolore che si portano appresso come un karma. 
Tra suggestive atmosfere tropicali, tra spettri che aleggiano per secoli incatenati nel cortile di casa, tra morbide canzoni malinconiche cantate nelle notti umide dagli schiavi caraibici trapiantati a Macondo affinchè lavorino per i gringos, tra le cruente lotte intestine fra le donne della famiglia, ed i segreti che alcune di esse celano negli anni, in Cent'Anni di Solitudine si attraversa un secolo di vita surreale, poetica, evocativa.
Come in L'Amore ai Tempi del Colera, tutto pare sospeso in una bolla fuori dal tempo, che talvolta sfiora il mondo reale per poi riprendere il volo verso quello impalpabile delle leggende, degli spiriti, delle superstizioni. Manco a dirlo, un capolavoro.

UN ASSAGGIO:

" Jose Arcadio Buendia ci mise parecchio a rimettersi dalla perplessità quando uscì in strada e vide la folla. Non erano zingari, Erano uomini e donne come loro, coi capelli sciolti e la pelle scura, che parlavano nella loro stessa lingua e si lamentavano degli stessi dolori. Avevano mule cariche di cose da mangiare, carrette da buoi con mobili e utensili domestici, puri e semplici accessori terrestri messi in vendita senza smancerie dagli imbonitori della realtà quotidiana. Venivano dall'altra parte della palude, a due soli giorni di viaggio, dove c'erano villaggi che ricevevano la posta tutti i mesi e conoscevano le macchine del benessere. Ursula non aveva raggiunto gli zingari, ma aveva trovato la strada che suo marito non aveva potuto scoprire nella sua vana ricerca delle grandi invenzioni.

lunedì 22 ottobre 2018

JOHNATAN COE - La Famiglia Winshaw



DOVE: Inghilterra
QUANDO: tra gli anni '80 ed i primi anni '90

Dunque, rieccomi qui. Un ritaglio di tempo rubato tra le attività domestiche, lei che sonnecchia tranquilla nella sua culla, accanto a me, fuori dalla finestra l'autunno che lacrima grigio contro i vetri.
L'ennesima pausa di qualche mese durante la quale sono stata lontana dal blog perchè la vita ha reclamato tutte le mie attenzioni, ma ne valeva la pena; come ho scritto, la bambina è nata con una settimana di ritardo, tutto è andato bene ed ho trascorso tre mesi godendomi lei e il fratello, malgrado il caldo.
Ora che lui è a scuola, finalmente riprendo le fila del blog, anche se delle tante idee che mi ronzano per la testa (anche per sviluppare meglio la sua "costola", Le Cartoline di Mete d'Inchiostro ) per ora non credo di riuscire a fare molto, perciò ricominciamo dalle cose semplici: i miei piccoli resoconti di viaggio.
In questi mesi di letture molto diluite, riservate ai momenti in cui ho lei attaccata al seno e sono sola, ho perso e riperso spesso il filo e sono riuscita a portare avanti solamente due letture. La prima, eccola qui: La Famiglia Winshaw, di Jonathan  Coe.
Di lui ho adorato La Banda dei Brocchi (qui la recensione), uno straordinario e malinconico viaggio nell'Inghilterra degli anni Settanta. Con I terribili segreti di Maxwell Sim, invece, Coe mi aveva accompagnato in un viaggio di tutt'altro sapore, in una storia apparentemente sonnolenta che poi, sul finale, si srotolava in un inatteso colpo di scena.
Anche qui, i ritmi sono perlopiù lenti, in una storia che si dipana in un intricata successione di flashback e presente, resa ancor più complessa dal fatto che le storie da seguire sono tante, una per ciascuno dei componenti della facoltosa famiglia Winshaw, appunto.
Ma chi sono, questi Winshaw? Altezzosi, ipocriti, meschini, arrivisti. I protagonisti di questa storia non possono che non risultare insopportabili, nella loro ostinata tendenza ad incarnare quanto di peggio la società possa proporre. Ricchi, ricchissimi, i giovani rampolli della dinastia nata da Matthew e Frances, hanno davanti a sè le infinite possibilità che una vita agiata possa offrire, e ne usufruiscono arrampicandosi, negli anni, qua e là, nei posti più "strategici" della società, senza guardare in faccia nessuno e senza farsi tanti problemi nell'eliminare più o meno apertamente coloro che intralciano loro la strada. C'è la giornalista senza scrupoli. Il politico. L'imprenditrice - titolare di un agghiacciante allevamento bovino. Il direttore di banca. Insomma, la tela dei Winshaw tesse una fitta rete che tocca le posizioni strategiche. E se l'impressione che danno al mondo sia quella di gente scorretta ed arrivista, quello che nascondono è anche peggio. Ed ecco che entra in gioco un modesto scrittore di romanzi, Micheal Owen, al quale viene inspiegabilmente assegnato l'incarico complesso di scrivere la biografia della famiglia. Chi lo chiede è un membro della famiglia stessa, anche se per certi versi ne è un "outsider": la vecchia ed eccentrica Tabitha, rinchiusa in una clinica psichiatrica e bollata come pazza per via della sua costante, granitica ossessione che la morte durante il secondo conflitto mondiale del compianto fratello Godfrey, appena trentaduenne, fosse stata causata dalle trame oscure del fratello Lawrence.
Michael, di carattere poco socievole, insicuro, tutt'altro che ambizioso e arrivista, impantanato in una vita insoddisfacente eppure incapace di darle una svolta si addentra con un certo zelo nell'incarico, cercando di dipanare le fila della monumentale storia della famiglia.
Tra Londra e la scura e solitaria magione dei Winshaw immersa in un parco silenzioso, questa storia ci catapulta nel pieno degli anni '80, gli anni in cui la Thatcher prendeva le redini della Gran Bretagna e Saddam Hussein era il volto di un'Iraq bellicoso e temibile.
Un racconto non semplice da seguire, con parecchi riferimenti storici e politici concreti, con un continuo intrecciarsi di tempi e luoghi, ma che alla fine si srotola per culminare - come accade per la storia di Maxwell Sim - in un finale che scoppietta rapido e inatteso come un petardo.
La storia è lenta, il mondo in cui ci trasporta è perlopiù cupo e cinico, dominato dagli interessi economici e con ben poco spazio per l'amore, relegato a impalpabile meteora nella vita della gente semplice, perchè nel mondo della gente di successo come i Winshaw, non si perde tempo coi sentimenti, quando i possono combinare, con un po' di calcolo, matrimoni fruttuosi.
La storia è amara, rabbiosa, malsana; uno di quei libri da cui si riemerge a tentoni, come dalla pece, con un senso di disgusto. Eppure un viaggio che vale la pena fare, perchè illumina un certo lato oscuro della società che esiste ed è sempre esistito: quello di chi "conta", di chi decide, di chi ha soldi e potere e se li tiene stretti pur consapevole di aver sacrificato ad essi il proprio lato umano.

UN ASSAGGIO:

"Era una zona tranquilla e scarsamente illuminata, di squallide e lugubri case, precedute da giardinetti maltenuti, e a quell'ora di notte, non c'era traccia di vita: solo qualche gatto in fuga, che ci tagliava la strada. Sarà stato l'alcol o l'entusiasmo per la serata riuscita - così almeno la vedevo io - ma mi sentii inebriato d'una nuova, esaltante atmosfera, foriera di altri momenti come quelli o persino più bellu, e mi venne dar voce, senza peraltro lasciarmene sopraffare, all'ottimismo sfrenato che mi aveva invaso.
'Spero che ci capitino altre occasioni come queste' balbettai. 'Non mi divertivo così tanto da... beh, dall'alba dell'uomo, diciamo.'
'Sì, è stato bello. Molto bello.' Ma c'era una sorta di esitazione nelle parole di Fiona, e non fui sorpreso quando avvertii nella sua voce il tono caratteristico di chi si prepara a rettificare. 'Solo, non voglio che tu pensi... guarda, non so proprio come dirtelo'
'Continua' dissi, vedendola incerta.
'Beh, non me la sento più di salvare le persone. Tutto qui. Voglio solo che sia chiaro questo.' "

martedì 2 ottobre 2018

PICCOLA PAUSA ^_^





A malincuore, continuo a lasciare in pausa il mio blog, anche se spero ancora per poco... La ragazza è nata il 13 luglio, in ritardo sulla data presunta e un giorno dopo il mio compleanno ^_^; giusto il tempo di rodare un po' le nuove routine, gestire lei, il fratello, un compagno, cane e micioni, e siamo arrivati a settembre, con la scuola, il karate e piccole grandi grane burocratiche.
Ma le letture, ovviamente, continuano ^_^, e spero presto di tornare qui, nel mio angolino virtuale, a condividere i miei viaggi.
Appena le poppate si diraderanno quel tanto che basta ad avere tempo per scrivere ^_^.
A prestissimo!

sabato 30 giugno 2018

ANTONIO TABUCCHI - Sostiene Pereira

DOVE: Lisbona, Portogallo
QUANDO: estate del 1938

Eccomi qui, dopo una pausa di alcune settimane; ahimè, giugno è stato frenetico, la scuola è terminata, la gravidanza progredisce (meno di una settimana allo scadere del tempo) lasciandomi sempre più appesantita e stanca ed emozionata, e per un insieme di cose non ho più trovato il tempo di aprire il computer e dedicarmi al mio angolo letterario.
Inoltre, essendo uscita molto di meno e trovandomi al contempo a dover fronteggiare tutta una serie di spese, per il momento ho accantonato le spese "libresche" riversandomi sulla mia meravigliosa, piccola libreria personale e recuperando vecchie letture.
Il mio primo ripescaggio, dunque, è stato questo: un libro che mi aveva tanto emozionato allora e non ha mancato di farlo neanche oggi, a distanza di tanti anni.
Un piccolo capolavoro di storia che prende spunto - ci dice l'autore in una breve postfazione - dalla storia vera di un giornalista trovatosi, suo malgrado, a camminare su quel sottile confine che c'è tra l'accettazione rassegnata del fatto che la Storia è più grande di noi, e stritola nei suoi ingranaggi coloro che tentano di opporvisi, e il disperato tentativo di fare comunque qualcosa, qualunque cosa. Una storia che parla del coraggio inaspettato che infiamma talvolta proprio quelli che sembravano meno eroici, meno inclini ai colpi di testa, più docili, ecco.
Come, appunto, il dottor Pereira, placido vedovo di mezza età e direttore della pagina culturale del Lisboa, cardiopatico, abitudinario, che in una Lisbona rovente sotto il sole d'agosto srotola quotidianamente i piccoli rituali della sua vita senza pretese. La colazione al Cafè Orquidea, e le poche chiacchiere col cameriere Manuel. Le silenziose conversazioni quotidiane col ritratto della moglie defunta, alla quale continua a rivolgersi con un amore che sfiora la devozione. Il viaggio andata e ritorno da casa alla sua solitaria redazione. Le letture.
Una vita, insomma, assolutamente tranquilla, imperturbabile. Eppure siamo nell'agosto del 1938, e sotto il rovente sole di Lisbona c'è qualcosa che sembra ribollire. I giornali ufficiali non ne parlano, ma si vocifera che cose strane stiano accadendo, che le forze dell'ordine si siano fatte improvvisamente violente, che la censura inizi a pressare in modo soffocante i mezzi d'informazione, che sulla scia di quanto sta accadendo nella vicina Spagna ed in Italia, anche nel tranquillo Portogallo la democrazia inizi a vacillare.
Ma di tutto questo, al dottor Pereira, importa poco. Lui, attento a non uscire dal rassicurante tracciato della sua vita, a parte le poche informazioni scambiate con Manuel mentre sorseggia la sua limonata ghiacciata, evita accuratamente di occuparsi di politica. D'altronde, si dice, il mio compito è dirigere la pagina culturale settimanale di un giornale indipendente, cosa ha a che fare con me ciò che sta accadendo nel mondo? E, preoccupandosi piuttosto di arginare il sudore che impregna la sua camicia, si occupa maniacalmente di gestire la sua piccola redazione, della quale peraltro egli è l'unico e solo componente, pianificando di affiancare alla rubrica dedicata alle Ricorrenze un'attività di preparazione e stesura di necrologi dedicati ai grandi autori contemporanei, da tenere pronti in archivio per esser certi di uscire in tempo, al momento del bisogno.
Ed è qui, ahimè, che il diavolo rimescola le carte costringendo il placido Pereira a guardare negli occhi la storia. Perchè a chi decide di affidare la rubrica, il piccolo, umile direttore? Al giovane e pallido Francesco Monteiro Rossi, filosofo autore di un brillante saggio sulla morte che Pereira legge per puro caso e che decide di contattare affinchè lo affianchi come apprendista.
Peccato che, ben presto, Monteiro Rossi si riveli tutt'altro che l'affidabile giornalista che Pereira sognava per la sua redazione. Perchè il giovanotto - che chiede una paga anticipata, trovandosi in difficoltà - scrive articoli inutilizzabili, sparisce più volte nel nulla per settimane, riappare con la splendida fidanzata Marta chiedendo di nuovo soldi, sempre più pallido, sempre più agitato.
Ed è a questo punto che il calmo, metodico, quieto Pereira comincia a dubitare, riflettere su ciò che sta accadendo, trovandosi ben presto ad un bivio.
Un racconto straordinariamente vivo, tanto che sembra di essere lì, sotto un cielo sgombro di nubi, ad arrancare  in tram assieme a Pereira per le strade ardenti di Lisbona, zuppi di sudore, col conforto di una limonata non zuccherata e di quiete conversazioni con un ritratto muto, in una vita solitaria, pacata, volutamente discosta da tutto ciò che richieda impegno politico, scelte impegnative, colpi di testa.
Una storia stupenda di come la Storia, quella con la S maiuscola che poi finisce stampata sui libri di scuola, si insinui con la forza dirompente di un liquido negli spiragli che trova aperti, travolgendo le vite dei singoli, costringendoli a guardarla negli occhi e a guardare negli occhi loro stessi, decidendo il loro destino.
Uno dei viaggi più straordinari che la letteratura mi ha regalato in questi anni da lettrice vorace. La penna di Tabucchi sa trasferirci nella Lisbona degli anni '30 con la potenza di una rappresentazione olografica.
Accanto a tanti libri che - giustamente - vengono raccomandati agli studenti per la comprensione degli anni forse più bui della nostra storia moderna, ritengo sarebbe opportuno dare spazio anche a questo, che più di tutti si pone l'immenso, dilaniante quesito: e noi, cosa avremmo fatto?

UN ASSAGGIO:

"Disse così, sostiene, perchè non voleva invitare una persona sconosciuta in quella squallida stanzetta di Rua Rodrigo da Fonseca, dove ronzava un ventilatore asmatico e dove c'era sempre puzzo di fritto a causa della portiera, una megera che guardava tutti con aria sospettosa e non faceva altro che friggere. E poi non voleva che lo sconosciuto si accorgesse che la redazione culturale del Lisboa era solo lui, Pereira, un uomo che sudava dal caldo e dal disagio in quel bugigattolo, e insomma, sostiene Pereira, gli chiese se potevano incontrarsi in città,e  lui, Monteiro Rossi, gli disse: Stasera, in Praca da Alegria, c'è un ballo popolare con canzoni e schitarrate, io sono stato invitato a cantare una romanza napoletana, sa io sono mezzo italiano ma il napoletano non lo conosco, comunque il proprietario del locale mi ha riservato un tavolino all'aperto, sul mio tavolino c'è un cartellino con scritto 'Monteiro Rossi', che ne dice se ci vediamo là? E Pereira disse di sì, sostiene, riattaccò la cornetta, si asciugò il sudore, e poi gli venne una magnifica idea, di fare una breve rubrica intitolata 'Ricorrenze', e pensò di pubblicarla subito per il prossimo sabato, e così, quasi macchinalmente, forse perchè pensava all'Italia, scrisse il titolo: Due Anni fa Scompariva Luigi Pirandello."

domenica 3 giugno 2018

SUSANNA TAMARO - Và dove ti porta il cuore



DOVE: in una grande, solitaria casa nel Carso
QUANDO: anni'90

Quanto ho amato questo libro, non so esprimerlo, credo, a parole. L'ho amato come lo hanno amato molte adolescenti degli anni'90, l'ho letto evidenziandone i passaggi che più mi colpivano, ricopiandoli poi nelle pagine della Smemoranda, straripante di queste e di altre citazioni.
Erano tempi diversi, senza instagram nè facebook, fatti di carta, evidenziatori colorati e di diari che raddoppiavano di volume sotto la spinta di cartoline, biglietti del cinema, foto.
Ecco, è in quel mondo lì che ha visto la luce questo piccolo classico - posso permettermi di chiamarlo classico, anche se le generazioni successive forse non lo avranno mai letto? - a metà tra il romanzo fine a sè stesso e la filosofia "leggera".
Qualche tempo fa l'ho visto riapparire sotto forma di recensione in un blog ( ahimè, mi scuso con l'autore ma ho completamente rimosso di quale blog si trattasse ) e mi sono detta: ecco un altro titolo da recuperare e rileggere adesso.
All'epoca ero una figlia ( e una nipote), oggi sono passata dalla parte opposta della barricata e sono innanzitutto una mamma; l'idea era di intraprendere di nuovo questo viaggio a metà tra fisico e psiche, per vedere semplicemente l'effetto che fa. Manco a dirlo, ora come allora, l'ho amato. Con una nuova consapevolezza, certo, con occhi nuovi su certe sfaccettature; ma indubbiamente non ne sono rimasta delusa.
La storia è quella di tre generazioni di donne. La prima, quella della nonna, voce narrante nonchè figlia di una famiglia borghese dell'estremo nord Italia, formata come tutta la sua generazione dal dolore della guerra e da un'educazione rigida focalizzata sulle apparenze più che sull'affetto.
La seconda, quella della figlia di lei, turbolenta rappresentante della ribellione giovanile degli anni '70, dell'inquietudine, dei "tempi nuovi" che hanno visto la luce dopo le macerie della guerra e dopo il boom economico. L'ultima, quella della nipote, una giovane degli anni '90 emigrata negli USA in cerca di esperienze, voce muta eppure presente attraverso le parole ed i ricordi della nonna.
Tre generazioni che si intrecciano, si sovrappongono e si allontanano, ciascuna sotto la spinta del proprio modo d'essere, e che la nonna cerca di riunire - se non fisicamente, almeno emotivamente - scrivendo alla nipote una lunga lettera.
Una lettera che sgorga spontanea dal suo cuore, nella quale i ricordi si ammucchiano e si dipanano senza necessariamente seguire il filo cronologico, spinti dall'urgenza dei sentimenti contrastanti che la animano mentre cerca di spiegare alla nipote lontana la storia di lei, e delle donne della sua famiglia.
Noi siamo con lei, in una immensa villa nel ventoso inverno del Carso, una casa divenuta improvvisamente troppo grande e troppo silenziosa, nella quale lei, con la sola compagnia del cane Buck e dei suoi ricordi, si aggira ricostruendo la sua esistenza, mettendo nero su bianco aneddoti della sua vita, cercando di spianare le incomprensioni con la nipote riportando alla luce ricordi dei loro anni insieme, anni sereni e splendenti nei quali erano state unite, ma non solo.
Perchè con uno straordinario coraggio, la nonna decide di aprirle completamente il suo cuore, raccontandole finalmente un segreto che portava sepolto nell'animo da anni, un segreto pieno di spine che aveva dovuto inghiottire in nome di una rispettabilità borghese che negli anni '90 già cominciava a scricchiolare come concetto.
Una storia straordinaria che ha come voce narrante quella pacata di una donna anziana, la quale lontana ormai dai tumulti rabbiosi della giovinezza ripercorre passo a passo la sua vita, i suoi errori, cercando di fare luce negli angoli bui e di dare alla giovane nipote proiettata verso quel futuro che a lei sta sfuggendo dalle mani delle solide basi sulle quali costruire la donna che sceglierà di diventare.
Una storia delicata che spinge a riflettere sulle convenzioni, su ciò che davvero conta nella vita, sulle scelte, sul tempo che scorre e che non torna indietro.
Sulle fratture che talvolta si creano tra un essere umano e l'altro, e che non sempre si riescono a sanare.


UN ASSAGGIO:

"Per mio padre, come per mia madre, i figli prima di ogni altra cosa erano un dovere mondano. Tanto trascuravano il nostro sviluppo interiore, altrettanto trattavano con rigidità estrema gli aspetti più banali dell'educazione. Dovevo sedermi dritta a tavola con i gomiti vicino al corpo. Se, nel farlo, dentro di me pensavo soltanto al modo migliore di darmi la morte, non aveva nessuna importanza. L'apparenza era tutto, al di là di essa esistevano soltanto cose sconvenienti.
Così sono cresciuta con il senso di essere qualcosa di simile ad una scimmia da addestrare bene e non un essere umano, una persona con le sue gioie, i suoi scoramenti, il suo bisogno di essere amata. Da questo disagio molto presto è nata dentro di me una grande solitudine, una solitudine che con gli anni è diventata enorme, una specie di vuoto pneumatico nel quale mi muovevo con i gesti lenti e goffi di un palombaro."

sabato 2 giugno 2018

INFORMATIVA PRIVACY


Dal 25 maggio 2018 è in vigore la nuova normativa europea sulla privacy (qui il link alla pagina del Garante per la Protezione dei Dati Personali, dove è possibile reperire tutte le info in materia), pertanto ho ritenuto opportuno inserire un breve post con tutti i riferimenti utili.

Il mio blog si appoggia alla piattaforma Blogger, per la quale vige la Privacy Policy di Google; nonostante venga visualizzato un pop-up all'apertura della pagina che rimanda a tali norme, riporto qui in ogni caso di nuovo i link ai quali è possibile trovare più nel dettaglio le norme generali  in materia di privacy e, più nello specifico, la policy relativa all'utilizzo dei cookies da parte di Google.

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mercoledì 30 maggio 2018

AA VV - I Confini della Realtà

DOVE e QUANDO: non sempre specificato, spesso in un'Italia contemporanea o in un futuro immaginario

Ecco un ennesimo caso di libro in cui mi imbatto per caso, frugando su una bancarella di libri usati.
Più e più volte ho detto di come il racconto non sia un genere a me congeniale, lasciandomi perlopiù con un senso di insoddisfazione di fronte a finali spesso frettolosi; ma più e più volte ho anche detto che, quando il racconto si addentra in mondi particolari, atmosfere noir, o horror, o fantascientifiche, trovo che al contrario diventi un genere interessante, e che spesso dia origine a vere e proprie piccole "chicche".
Ultimo in ordine cronologico tra le mie letture era stato Ray Bradbury, tanto per citarne uno.
In questo caso, invece, sono una serie di autori italiani (Licia Troisi, Violetta Bellocchio, Tullio Avoledo solo per citarne alcuni) ad accompagnarci attraverso un viaggio in un'Italia diversa da quella che conosciamo. Un'Italia in cui manco a dirlo accadono fatti misteriosi, inquetanti, a filo del paranormale. O, addirittura, un'Italia in cui la realtà che vediamo e percepiamo è completamente distorta rispetto al vero.
Il richiamo, già dal titolo, è evidente: la fortunata serie USA "Ai Confini della Realtà" ( "The Twilight Zone", se non avete mai avuto occasione di guardarla fatelo, se amate il genere, non resterete delusi) , nella quale in ogni puntata si raccontava una storia dal sapore surreale, angosciante, inquietante, paranormale, fantascientifico e chi più ne ha, più ne metta, dando vita a piccole "perle" di microcinema da gustarsi nell'arco di una mezz'ora,  credo, o poco più.
Ripeto, se amate il genere (io da buona teenager anni'90 ho divorato quasi tutte le serie di X-Files) e non avete avuto modo di guardarla, fatelo. Spesso la RAI la rimette in onda, specialmente nel periodo estivo ^_^.
Dunque, dicevamo, la strana e inquieta Italia attraverso cui questi autori ci portano in viaggio.
Talvolta, come in "L'Odore" di Carla Vangelista, il viaggio è più nella mente e nella psiche di un uomo malato. Altre volte, come in "Lo zoo di Schroedinger" di Tullio Avoledo, ci ritroviamo in una sorta di ghetto allucinato, malsano, popolato da personaggi non completamente umani.
Altre ancora, come in "Plastic" di Chiara Palazzolo, ci muoviamo attraverso l'afa asfaltata di una Roma contemporanea, nella quale però ben presto alcune cose cominciano a non tornare.
Difficile riassumere qui in maniera sintetica i tanti sapori e le tante ambientazioni proposte dagli autori. Dieci capitoli, altrettante penne che magistralmente creano questi mondi stravolti, dieci differenti atmosfere. Tra città afose e placidi paesaggi di campagna, da Nord a Sud, tra mondi paralleli, strane presenze, leggende metropolitane, l'esilissimo confine tra reale e irreale viene varcato e rivarcato più volte, accompagnandoci in un viaggio scorrevole, gustoso, rilassante seppure con qualche colpo di scena.
Una evasione a tutti gli effetti dal mondo reale, per tanti piccoli viaggi in altrettanti bizzarri universi, ciascuno con la propria, avvolgente atmosfera, ciascuno perfettamente chiuso in sè stesso, ciascuno ricco di suspance e di curiosità.
Personalmente, a parte un paio di storie che ho trovato meno "entusiasmanti", ho amato molto tutti i capitoli. E, ovviamente, tanti spunti di lettura a cui attingere, nel caso in cui qualcuno degli autori risultasse un "nuovo incontro".

Un libro da non perdere, se amate il genere.


UN ASSAGGIO:

"E' all'altezza del lungotevere Flaminio, poco prima di imboccare il ponte, che Plasty nota la signora. Capelli corti, arruffati. Spessi occhiali da vista. Pantaloni dall'aria trasandata. Come lei, del resto. La tipica vecchia signora di mezza età. Ma per Plasty, che compirà ventinove anni in giugno, tutte le signore con i capelli grigi sono vecchie. E poi questa ha il bastone.
Un bastone di legno poggiato a lato del sedile dell'autobus.
La signora deve aver detto qualcosa, per questo Plasty l'ha notata. O forse ha bofonchiato. O solo sbuffato, strappando Plasty alla lettura degli annunci immobiliari del quotidiano che tiene in mano.
E che farebbe a meno di spulciare, se non fosse per questi stronzi della Sa.Va.Te Inc., che si sono messi in testa di dismettere il loro patrimonio immobiliare, buttando Plasty in mezzo a una strada."

mercoledì 23 maggio 2018

PAUL KALANITHI - Quando il Respiro si fa Aria

DOVE: tra l'Arizona e Stanford, USA
QUANDO: anni'2000

Comprai questo libro tempo fa, lasciandolo poi a lungo nel cassetto, perplessa. Chi me lo aveva consigliato me ne aveva parlato in termini straordinari, eppure io temevo di andarmi ad impelagare in una storia strappalacrime, soffocante, intrisa di dolore.
D'altronde, qui si parla di un uomo - un giovane uomo, anzi, un giovane, brillante e promettente specializzando in neurochirurgia - che si trova a dover fare i conti con una diagnosi che non lascia scampo. Un cancro al polmone sta lentamente divorando il suo corpo, e con esso tutta la sua vita. La sua carriera di medico. Il suo matrimonio. Le sue speranze.
Si tratta, oltretutto, di una storia vera, verissima, raccontata dalla viva voce del protagonista, assieme al quale ripercorriamo le tappe salienti della sua breve vita, spaccata a metà come da una immensa diga proprio da quella diagnosi tremenda: da un lato gli anni spensierati della giovinezza, lo studio, il sogno di diventare medico. Dall'altro i tremendi dolori con cui il giovane chirurgo combatte e convive, lo stomaco rivoltato dalla chemio, la spossatezza, gli occhi dei familliari e delle persone amate che fissano addolorati ed impotenti il suo lento declino.
Dicevo, premettendo tutto questo ho atteso un po', prima di avventurarmi in questo viaggio, perchè temevo di ritrovarmi invischiata in un dolore che non avrei saputo gestire - e che avrei pianto fiumi di lacrime, come mi era accaduto con lo splendido Gramellini.
Invece, sorprendentemente, qui non ho trovato traccia di tutto questo. E' un libro, questo è vero, in cui si parla di morte e di dolore; eppure è un libro che ti scorre tra le mani lieve come una farfalla, pieno di poesia, di positività, della razionale e serena accettazione di ciò che è.
Assieme al dottor Kalanithi riviviamo la sua giovinezza, gli anni delgi studi, la sua passione per la scrittura soppiantata poi da una nuova, nascente passione per la medicina - e la neurochirurgia, in particolare - vista soprattutto come strumento per praticare l'empatia, ed aiutare i pazienti anche e soprattutto sotto il profilo umano.
Un uomo pieno di passione, che vede davanti a sè gli ultimi, faticosi gradini di specializzando in neurochirurgia, cominciando a raccogliere i frutti di tanto sudato lavoro. Un medico giovane, brillante, abilissimo chirurgo nonchè pieno di umanità, desideroso di approfondire ancor più le sue conoscenze affiancando gli studi di neurobiologo alla già impegnativa attività di medico ospedaliero.
Un uomo che, con la lucida razionalità del chirurgo, non può che avere subito chiara la sua situazione, quando i dati clinici confermano quello che lui sospettava, interpretando i suoi stessi sintomi: il dottor Kalanithi sta lentamente morendo.
Con poesia, delicatezza, realismo decide allora di riprendere in mano quello che era stato il suo primo amore, la scrittura, e inizia a mettere nero su bianco la sua storia. Raccontandosi e raccontandoci cosa succede quando tutto ciò che hai costruito ti crolla addosso. Anzi, ad essere corretti, quando sei TU a crollare fisicamente mentre tutto ciò che hai costruito improvvisamente pare perdere qualunque significato.
Ma non c'è traccia di rabbia, nè dolore, nelle sue parole; chiudendo il libro, dopo averlo accompagnato nel suo ultimo viaggio, quel che resta è una lieve malinconia per ciò che è rimasto in sospeso, per tutto ciò che non ha potuto realizzare, ma nulla di più. Per il resto, ciò che traspare attraverso le sue parole, anche nei momenti di sconforto, anche quando, sconfitto dal dolore, deve rinunciare ad essere in sala operatoria, è una straordinaria forza, una grande serenità e di capacità di accettazione, ed un soffuso, positivo senso della vita, tutto sommato. Quella vita che, negli anni a venire, andrà avanti senza di lui.
Un viaggio in un mondo fatto di lacrime ma anche di forza interiore, una storia delicatissima come una nuvola, che si legge in un soffio e ti lascia dentro una strana pace interiore.
Un uomo straordinario che insegna una grande lezione di vita.
Cito - lo faccio raramente, ma in questo caso trovo che siano parole perfette per condensare l'essenza di questo libro - uno dei commenti riportati sul retro di copertina; quello, in particolare, di Pino Corrias, il quale scrive:

"In questa storia la malattia diventa un pensiero profondo, diventa l'ombra che, precipitando verso il buio, illumina la vita"

Ecco, trovo che questo sia il senso della storia - e della breve vita - del giovane dottor Kalanithi. Non lasciarsi spaventare dalle ombre. Non disperarsi per ciò che non è in nostro potere controllare. Accettare la vita, e concentrarsi su di essa, vivendo al meglio ciò che ci è dato. Al di là del credo religioso, con lucidità da scienziato, quest'uomo ci ha lasciato - in più o meno 150 pagine - una grande lezione di vita.

UN ASSAGGIO:

"Avevo la certezza che non sarei mai diventato un medico. Sdraiato al sole, mi stavo rilassando su un altopiano deserto sopra la nostra casa. Mio zio, un medico come molti miei parenti, quel giorno mi aveva chiesto quale carriera avessi intenzione di intraprendere, ora che il college era alle porte, e io non avevo dato peso alla sua domanda. Se fossi stato costretto a rispondere, credo che avrei detto lo scrittore, ma sinceramente in quel momento qualsiasi idea di carriera mi sembrava assurda. Nel giro di poche settimane avrei lasciato quella cittadina dell'Arizona, e non mi sentivo come uno che si prepara a fare carriera, ma piuttosto come un elettrone ronzante che sta per raggiungere la velocità di fuga, catapultato verso uno strano universo sfavillante"


giovedì 17 maggio 2018

Shirley Jackson - L'Incubo di Hill House



DOVE: provincia americana
QUANDO: più o meno, inizio anni '60

Dopo due viaggi attraverso i meandri della psiche e della natura umana - con Saramago prima e con Huxley poi -  sentivo il bisogno di un po' di respiro con qualcosa di meno impegnato. Ed eccomi quindi ad avventurarmi tra le pagine di un horror di quelli che piacciono a me, molto "vintage", molto "psicologici", molto giocati sulla tensione e sulle emozioni dei protagonisti che non su ciò che di fatto avviene "concretamente". Un viaggetto che si consuma in pochi giorni, dallo stile scorrevole e coinvolgente, e che ci porta in una oscura e inquieta abitazione racchiusa in una tenuta dalla vegetazione fitta ed intricata, nel cuore della provincia americana. Una costruzione di quelle che ti danno un brivido lungo la schiena anche soltanto a guardarne la facciata durante il giorno, figuriamoci poi se devi passarci dentro una o più notti, in balia dei misteriosi cigolii che si disperdono in un intricato groviglio di corridoi e stanze comunicanti. Hill House è così, una casa che sembra avere un'anima, ed un'anima particolarmente inospitale, inquieta e violenta. Un po' come la Rose Red de "Il Diario di Ellen Rimbauer", per intenderci.
In questo caso, i nostri compagni di viaggio sono tre, oltre al misterioso professor Montague, studioso del paranormale e dell'occulto ed organizzatore di questa bizzarra "vacanza", il quale dopo un'attenta selezione ha contattato tre individui - due donne ed un uomo - che per le loro caratteristiche gli sono sembrati particolarmente idonei allo scopo. Che poi altro non è che quello di stimolare, vivere ed annotare eventuali vicende paranormali che dovessero verificarsi all'interno della casa.
Dunque, dicevamo, i nostri compagni di viaggio. Luke Sanderson, nipote della proprietaria di Hill House, dal passato non proprio irreprensibile e futuro erede dell'inquietante abitazione. Theodora - o semplicemente "Theo": esuberante e passionale artista e la timida Eleanor Vance, trentaduenne senza ambizioni vissuta per anni nell'ombra ingombrante di una madre invalida e ritrovatasi improvvisamente sola e senza aspirazioni alla morte di quest'ultima.
Assieme a loro, ma soprattutto assieme alla protagonista Eleanor Vance, raggiungiamo dunque la cupa dimora, ne varchiamo titubanti la soglia, prendiamo posto sistemando i nostri effetti personali nelle camere da tanto tempo disabitate, sotto l'occhio arcigno della vecchia e scorbutica coppia di custodi - i quali tengono bene a sottolineare che non metteranno mai piede ad Hill House dopo il tramonto, qualunque cosa accada.
Immaginatevi dunque la casa, avvolta in una nebbiolina piovosa, la sua assoluta quiete, le stanze comunicanti una con l'altra attraverso una intricata rete di corridoi. Immaginatevi di veder scendere la notte, lentamente, avviluppando la casa in una morsa scura, e di ritirarvi in solitudine nella vostra stanza, col cuore in gola in attesa di ciò che potrebbe accadere. Giorni che scorrono prigramente, notti che inaspettatamente sembrano animarsi di strani suoni, venti che spazzano i corridoi, porte scosse da colpi violenti. Ma soprattutto, l'attesa angosciosa di ciò che può accadere.
Ecco, la storia di Hill House è una storia così. Di angoscia, di attesa, di misteriosi accadimenti. Di una casa inanimata che pare avere occhi ed orecchie, ed un passato di malignità e strani accadimenti fin da quando le sue fondamenta sono state gettate, decenni prima. La potenza dello spirito di Hill House pare suggestionare - o fare presa, a seconda che vogliamo vederla in maniera più o meno scettica - sull'anello debole, la piccola e sola Eleanor Vance, succube di sè stessa, mai stata amata, mai stata in grado di scuotersi di dosso l'etichetta di ragazza calma e devota alla madre anima e corpo.
L'anima più fragile e più tormentata del gruppo finisce inevitabilmente per essere quella che più di tutte percepisce l'opprimente e malvagio spirito di Hill House, ne viene soggiogata, dalla prima all'ultima pagina.
Fino alla strana, inattesa eppure inevitabile conclusione.
Un horror classico, dalla penna di una grande maestra del genere, per chi ama la tensione psicologica, l'attesa angosciosa di ciò che potrebbe essere,  il fascino innegabile delle case dal passato oscuro.

PS: se volete seguirmi anche sull'altro blog, qui si parla invece di personaggi femminili che lasciano un segno...

UN ASSAGGIO:

"L'occhio umano non può isolare l'infelice combinazione di linee e spazi che evoca il male sulla facciata di una casa, e tuttavia per qualche ragione un accostamento folle, un angolo sghembo, un convergere accidentale di tetto e cielo, facevano di Hill House un luogo di disperazione, tanto più spaventoso perchè la facciata sembrava sveglia, con le finestre vuote e vigili a un tempo e un tocco di esultanza nel sopracciglio di un cornicione. Quasi ogni casa, colta di sorpresa o da un'angolazione bizzarra, può volgere uno sguardo profondamente burlesco su chi la osservi; perfino un comignolo dispettoso, o un abbaino che sembri una fossetta possono suscitare nell'osservatore un senso di intimità; ma una casa arrogante e carica d'odio, sempre in guardia, non può che essere malvagia.
Quella casa, che sembrava quasi aver preso forma da sola, assemblandosi in quel suo possente schema indipendentemente dai muratori, incastrandosi nella struttura di linee ed angoli, drizzava la testa imponente contro il cielo e senza concessioni all'umanità."

venerdì 11 maggio 2018

ALDOUS HUXLEY - Il Mondo Nuovo

DOVE: Londra
QUANDO: in un ipotetico futuro

Insieme alla Guida Galattica per gli autostoppisti, il Mondo Nuovo di Huxley era un altro di quei viaggi letterari che è rimasto, inspiegabilmente, in sospeso per anni. Un classico contemporaneo del quale avevo sentito tanto parlare e che tanto desideravo leggere, ma che poi, per un motivo o per un altro, è rimasto sempre un titolo nella mia wishlist "mentale".
Fino a quest'anno, quando finalmente ho fatto le mie valigie virtuali e mi sono immersa in questo strano, geniale, ipotetico universo. Siamo a Londra, in un futuro non meglio identificato ma che a occhio e croce collocherei negli anni '50-60 del nostro mondo, se proprio vogliamo trovare un parallelismo. Ma il Mondo Nuovo di Huxley, corre su binari profondamente diversi.
L'umanità - in contrasto con quella descritta da Saramago, in Cecità, appena recensito - pare aver finalmente raggiunto uno stato al limite della perfezione, eliminando da sè stessa tutti gli aspetti negativi correlati alle emozioni umane, ritrovandosi compatta, efficiente, sana. Nessuna guerra, nessuna carestia, nessuna lite nel piccolo come nel grande. Una produttività calcolata in maniera infinitesimale. Uno Stato estremamente presente, che in maniera capillare controlla, modula, definisce ogni singolo aspetto della vita umana, a cominciare dalla nascita, divenuta una sorta di disciplina scientifica nella quale gli embrioni vengono coltivati in provetta, e predestinati - con il controllo genetico prima e con un'educazione controllata poi - ad occupare uno specifico ruolo in società. Zero disoccupazione, zero infelicità, zero insoddisfazione. Un mondo che su carta sembrerebbe perfetto.Perfino il sesso, scorporato dal fastidioso inconveniente annesso della procreazione - della quale, appunto, si occupa premurosamente lo Stato - viene vissuto in maniera assolutamente libera, priva di legami sentimentali.
In questo mondo perfetto, gestito capillarmente ed asettico entriamo in punta di piedi, come osservatori, scoprendone ben presto le falle e le imperfezioni. Perchè, evidentemente, neppure il culto di Ford - bizzarra divinità postmoderna alla quale si deve la trasformazione della società umana in questo perfetto incastrarsi di ingranaggi - basta a tenere completamente sotto controllo le seppur soffocate emozioni umane. Che, anche in una società che ne pare priva, per una qualche anomalia nel processo di crescita embrionale sembrano affliggere alcuni individui, destinati pertanto ad essere bollati come "strani" dal resto della società.
Non voglio scendere troppo nei dettagli, perchè il libro in sè va gustato passo passo, seguendo pagina dopo pagina i tanti dettagli su come questa immaginaria civiltà perfetta sia nata e come sia perfettamente e minuziosamente gestita per evitare dispersioni di energia, profitti, denaro e salute.
E' un viaggio strano, surreale, dal sapore diverso rispetto - sempre per fare un parallelismo con una lettura recente - con il mondo immaginario ipotizzato da Saramago. Lì è il trionfo delle emozioni umane - in negativo - della violenza, dell'abiezione, dei bisogni fisici e corporali. Qui, al contrario, l'essere umano è accuratamente ed attentamente privato di tutto ciò che lo rende imperfetto, fisicamente e psicologicamente. Esseri eternamente giovani, eternamente controllati, eternamente perfetti, eternamente destinati ad un solo lavoro ed un solo posto in società, in grado di controllare perfettamente le emozioni, assumendone surrogati perfettamente dosati, di tanto in tanto, senza mai eccedere. Una società perfettamente pianificata come una sorta di gigantesco alveare, nel quale ciascuno fa quello che gli compete.
Una società, d'altro canto, in cui non c'è spazio per l'amore - neanche quello tra madre e figlio- nè per le emozioni positive, in cui tutto è freddo e controllato per evitare i rischi connessi all'impetuosità della natura umana.
Ma vale davvero la pena privare l'uomo della sua parte umana, per proteggerlo da sè stesso impedendogli di essere violento? Vale la pena restare eternamente giovani e perfetti, se non si può provare amore?
La risposta a tutto questo la troveremo più avanti, quando insieme a due giovani londinesi - la bella Lenina, perfetta incarnazione del sistema fordiano, ed il bizzarro Bernard, del quale si vocifera che un'anomalia incorsa durante il suo processo di sviluppo embrionale abbia causato la sua eccessiva e pericolosa tendenza alle emozioni - visiteremo una riserva di selvaggi, ultimo baluardo di quella che un tempo, prima dell'era Ford, era stata la civiltà umana e che adesso è ridotta ad un piccolo manipolo di individui isolati ed abbrutiti, cui i fordiani guardano con un misto di terrore e disprezzo.
E verso i quali, manco a dirlo, l'anomalo Bernard nutre una strana, pericolosa attrazione...

Un viaggio che porta lontano, lontanissimo, e che di nuovo ci pone interrogativi sull'uomo, su ciò che siamo, sul nostro ruolo sul pianeta terra e sulla nostra spiccata, irrefrenabile tendenza all'autodistruzione.

(PS: per chi volesse seguirmi anche nell'altro blog, qui parliamo invece di racconti classici per ragazzi con un potente messaggio ai contemporanei..)

UN ASSAGGIO:

"Ci fu una pausa, poi la voce riprese.
'I bambini Alfa sono vestiti di grigio. Lavorano molto più di noi, perchè sono tanto tanto intelligenti. Sono veramente contento di essere un Beta perchè non sono costretto a lavorare così duramente. E poi, noi siamo superiori ai Gamma e ai Delta. I Gamma sono stupidi. Sono vestiti tutti di verde, e i bambini Delta sono vestiti di cachi. Oh no, non voglio giocare con i bambini Delta. E gli Epsilon sono ancora peggio. Sono troppo stupidi per...'
Il Direttore girò di nuovo l'interruttore. La voce tacque. Soltanto il suo sottile fantasma continuò a mormorare sotto gli ottanta guanciali.
'Se lo sentiranno ripetere ancora quaranta o cinquanta volte prima di svegliarsi: poi di nuovo giovedì e ancora sabato. Centoventi volte, tre volte alla settimana, per trenta mesi. Dopo di che, passerammo a una lezione più avanzata.'

domenica 6 maggio 2018

JOSE SARAMAGO - Cecità


DOVE e QUANDO: in un luogo e un tempo non meglio specificati, da qualche parte negli anni'90.

Ecco uno di quei libri che ti colpiscono con la potenza di un pugno allo stomaco. Disturbante, anche se a questo termine non voglio dare un'accezione completamente negativa, anzi. Ma come altro potrei definire un libro che, con semplicità e scorrevolezza ci pone davanti agli occhi tutta la cruda brutalità ed abiezione di cui noi esseri umani siamo capaci?
Un libro certo scorrevole ma che non consiglio a chi sia in cerca di letture leggere, spensierate, da ombrellone. Eppure un libro da leggere perchè spinge all'introspezione ed ad una attenta riflessione sulla natura umana.
Siamo da qualche parte, in una banalissima città come tante, più o meno intorno agli anni '90, quando improvvisamente qualcosa accade a stravolgere la quotidianità dei suoi abitanti. Una bizzarra epidemia di cecità, che pare colpire rapidamente e inaspettatamente i suoi cittadini, i quali di punto in bianco si ritrovano avvolti in una sorta di buio lattescente.Panico, naturalmente. Disperazione. Vite che di punto in bianco si ritrovano completamente stravolte, medici disorientati che frugano i loro voluminosi libri in cerca di risposte, un Governo che - in un primo momento - pare essere in grado di gestire con calma e lucidità la situazione. Gli ammalati vengano immediatamente isolati dalla popolazione sana, mentre la scienza si occupa di cercare una soluzione al "mal bianco".
Individuato il luogo idoneo - un vecchio ospedale psichiatrico dismesso - il solerte Governo provvede subito a deportarvi gli ammalati, in completo isolamento dal mondo esterno, promettendo tre consegne di cibo al giorno e facendo sentire la propria attenta e quotidiana presenza attaverso un asettico messaggio audio attraverso il quale, giorno dopo giorno, ribadisce l'estrema attenzione verso le loro esigenze, richiama essi stessi al proprio amore civico, stila l'elenco delle regole da rispettare durante la degenza.
Qui, dunque, ci ritroviamo anche noi. Rinchiusi tra le fredde pareti di un ex manicomio assieme ad un piccolo manipolo di disperati, strappati bruscamente alle loro famiglie ed alle loro vite, spaventati, privati della vista, con un piccolo bagaglio di effetti personali e null'altro a dar loro conforto, sorvegliati dall'esterno da uno schieramento di soldati con l'ordine di sparare a vista (loro che, almeno per ora, ne sono provvisti) a chiunque dovesse cercare la fuga. In nome, manco a dirlo, del bene comune, che spinge l'amorevole Governo a isolare i malati onde circoscrivere il più possibile lo strano contagio. In un primo momento, tutto scorre più o meno liscio. Il piccolo manipolo di ricoverati, con disciplina e amor proprio, tenta di gestire al meglio la circostanza, abituandosi a muoversi in quel liquido lattescente che imprigiona i loro occhi, convivendo civilmente, dandosi appoggio reciproco. Lentamente però, la situazione sfugge di mano, i contagi aumentano, il numero di cittadini stipati nel manicomio cresce vertiginosamente, il premuroso ed attento Governo si fa sempre più distante e meno presente, le condizioni igieniche peggiorano, il cibo scarseggia.
E, manco a dirlo, all'interno della struttura la situazione degenera.
Inizia dunque un viaggio claustrofobico, angoscioso, disturbante, durante il quale Saramago rinchiudendoci all'interno del vecchio manicomio fatiscente, via via impregnato degli odori corporali degli internati, della putrefazione di coloro che soccombono, del viscidume appiccicoso dei bagni dismessi che ben presto si rivelano insufficienti a gestire una popolazione di duecento individui, ci costringe a gettare uno sguardo sull'essenza dell'animo umano.
Perchè, in breve tempo, dalla convivenza civile, dalla solidarietà, dal sostegno reciproco si passa all'abbrutimento, alla violenza, al sudiciume, alla brutalità del forte contro il debole, all'inganno ed alla rapina. Prigionieri in quel delirante manicomio, sempre più soffocati dagli odori putrescenti, ci ritroviamo in preda ad una angoscia che stringe la gola, tormentati dai morsi della fame, in balia del capriccio dei violenti, abbandonati ben presto dal mondo civile, con un unico, piccolo barlume di umanità che - debole fiammella - tenta di resistere all'oscura brutalità della massa.
Un libro che disturba ma che lascia il segno. "Homo Homini Lupus", diceva Hobbes a cavallo del 1600; "ogni uomo è un lupo per gli altri uomini". E qui, nell'asfissiante piccolo microcosmo in cui Saramago ci costringe, la veridicità di questa intuizione emerge in tutta la sua violenza. Anche nel mondo pulito e civilizzato, se le circostanze cambiano l'uomo tira fuori la sua vera essenza. Fatta di violenza, abiezione, istinti immondi. La storia ahimè più e più volte ci ha messo in guardia su cosa l'uomo è in grado di fare, quando scende in basso; e qui, in poco meno di trecento pagine, troviamo condensato tutto questo e molto di più.
Perchè nonostante il sapore amaro, nonostante il terrore che sembra serrarci la gola, nonostante il pessimismo che ti si appiccica addosso pagina dopo pagina - perchè in cosa mai potrebbero sperare un gruppo di ciechi isolati dal mondo civile ed in balia della bestiale ferocia di altri ciechi?- nonostante tutto questo, permane quella piccola fiammella di umanità che tutto ciò non riesce a spegnere, malgrado tutto, nell'animo di un piccolo gruppetto di persone.
Basterà questa piccola scintilla a non farli soccombere?

Un libro da leggere, metabolizzare lentamente ed accettare così com'è, nella sua brutalità. Perchè in fondo anche di questo è fatto l'animo umano.

UN ASSAGGIO:

"All'inizio, quando i ciechi qui dentro si contavano ancora sulle dita, quando bastava lo scambio di due o tre parole perchè gli sconosciuti si trasformassero in compagni di sventura, e con tre o quattro in più si perdonavano reciprocamente tutte le mancanze, talune anche gravi, e se il perdono non poteva esser completo, bastava solo aver la pazienza di aspettare qualche giorno, si è visto benissimo quante ridicole angosce abbiano dovuto sopportare gli sventurati ogniqualvolta il corpo pretendeva una di quelle urgenti liberazioni che siamo soliti designare come soddisfazione di necessità. Malgrado ciò, e pur sapendo come siano rarissime le educazioni perfette e come persino i più discreti recessi abbiano i loro punti deboli, c'è da riconoscere che i primi ciechi messi in quarantena sono stati capaci, più o meno consapevolmente, di portare con dignità la croce della natura prevalentemente escatologica dell'essere umano. Ma adesso, con le brande tutte occupate, e sono duecentoquaranta, senza contare i ciechi che dormono per terra, non c'è immaginazione, per quanto fertile e creativa in paragoni, immagini e metafore, che possa descrivere con proprietà la distesa di schifezza che c'è qua dentro. Non è solo lo stato in cui si sono rapidamente ridotti i cessi, antri fetidi, come probabilmente saranno all'inferno le fogne delle anime dannate, ma è anche la mancanza di rispetto di alcuni o l'improvvisa urgenza di altri che, in pochissimo tempo, ha trasformato i corridoi e gli altri posti di passaggio in gabinetti che inizialmente erano occasionali e ormai sono diventati abituali."

giovedì 19 aprile 2018

HAYDEN HERRERA - Frida Kahlo

DOVE: Messico
QUANDO: Tra gli anni '30 e gli anni '50

Essendo una lettrice vorace, non c'è stato un momento della mia vita che non sia stato accompagnato da un libro sul comodino.
Da quando io ricordi, terminato un libro ne è sempre venuto un altro, ed un altro, ed un altro; va da sè che ogni momento saliente della mia vita, in un modo o nell'altro, può essere associato ad un libro che, in quella fase della mia vita, mi teneva compagnia.
Ebbene: la biografia di Frida Kahlo resterà impresso nella mia memoria come il libro che stavo leggendo quando ho scoperto che sarei stata mamma, stavolta di una bimba. Non so perchè, ma ho vissuto la cosa come un buon auspicio; Frida col suo temperamento passionale, il suo essere sè stessa a dispetto delle convenzioni, il suo fascino fuori dai canoni non può che essere il simbolo di un certo modo di vivere la femminilità.
E io, manco a dirlo, l'ho adorata fin dalla prima pagina.
Conoscevo la sua storia a grandi linee; e questa biografia corredata da fotografie delle sue opere consente di immergersi a 360 gradi nella vita di quella che, a tutti gli effetti, è una delle più straordinarie figure femminili del secolo scorso.
L'infanzia, l'incidente che le stravolge l'esistenza, l'amore intenso che la legò tutta la vita, malgrado tutto, al grande Diego Rivera, il suo lento farsi strada nel panorama artistico mondiale, fino alla sua morte avvenuta nel 1954; passo dopo passo, accompagnandoci con uno stile descrittivo e coinvolgente, Herrera ci accompagna nella vita di questa donna straordinaria e nella sua altrettanto straordinaria interiorità, attraverso stralci dei suoi diari.
L'ho letto in fretta, quasi divorandolo, immergendomi nei dettagli delle sue opere lasciando che esse parlassero di lei, del suo doloroso rapporto con la maternità mancata, con il passato, con l'amore per un uomo dal carattere complesso, seguendola nei suoi trasferimenti dentro e fuori dal Messico, trascinata dal carattere straordinario di una donna forte, che anche quando il dolore la schianta si rialza sempre e comunque, tenacemente attaccata alla sua vita.
Con lei, conosciamo la vera essenza di un Messico lontano, colorato, passionale, fiero delle proprie tradizioni. Entriamo nella sua casa di Coyoacan (Città del Messico), ricca di colore, di personalità, di vita, divenuta poi inevitabilmente  un museo dedicato alla pittrice (qui, se volete, maggiori dettagli e qualche immagine).
Viaggiamo attraverso la sua vita breve ed intensa, affezionandoci a lei - come si poteva non amarla, straordinariamente ricca di sfaccettature com'era, piena di vita e di colore e di passioni contrastanti? - e seguendola anche nei suoi momenti di fragilità, quando il dolore, la prospettiva di affrontare l'ennesimo intervento sul suo corpo martoriato, il tradimento dell'adorato Diego la piegavano senza mai spezzarla.
E manco a dirlo, pagina dopo pagina, Frida diventa un modello. Sopravvissuta giovanissima ad un terribile incidente si ritroverà improvvisamente intrappolata in un corpo ricucito, rappezzato, ricomposto. Con una colonna vertebrale spezzata e riassemblata ed una gamba anch'essa malridotta. Una ragazza piena di vita, di prospettive per il futuro che si ritrova, nel fiore della sua esistenza, ad essere invalida. Che, come se ciò non bastasse, vede allontanarsi da sè, in quegli stessi anni, il suo primo amore. Eppure, da tutto questo dolore, da tutta questa sofferenza, Frida insegna che si può rinascere, letteralmente. E diventare più forti, più consapevoli, più combattivi.
Una storia ricca, dolorosa, passionale, intensa, così come i suoi quadri, dalla quale non si può che uscire se non in rispettoso silenzio, portandosi dietro brandelli di sensazioni appiccicate addosso come tatuaggi. Un modello di donna nuovo, presente a sè stessa, indipendente eppure dolorosamente attaccata al suo uomo, coinvolgente, sempre ripiegata su sè stessa, a scandargliare in profondità, nella sua anima, le radici del suo dolore, e allo stesso tempo sempre aperta verso l'esterno, ricettiva nei confronti del mondo, della vita, del fermento politico rivoluzionario.
Un viaggio che mi ha lasciato senza fiato, e piena di rispetto verso la straordinaria personalità di una donna estremamente attuale. E che ha ancora tanto, tanto da dire.

UN ASSAGGIO:

"A partire dal 1925 la vita di Frida fu una lotta all'ultimo sangue contro il lento decadimento. Non la abbandonarono più la persistente sensazione di fatica ed i dolori costanti alla colonna vertebrale e alla gamba destra. Ci furono periodi in cui si sentiva più o meno bene e il fatto che zoppicasse si notava appena, ma a poco a poco il suo corpo andò disintegrandosi. Olga Campos, un'amica di famiglia che ha conservato le sue cartelle cliniche dai primi anni di vita al 1951, dice che Frida subì almeno trentadue interventi chirurgici, perlopiù alla spina dorsale e al piede destro, prima di capitolare, ventinove anni dopo l'incidente. 'E' vissuta morendo' ha detto lo scrittore Andres Henestrosa, un altro vecchio amico."

venerdì 13 aprile 2018

ORHAN PAMUK - Il mio nome è Rosso



DOVE: Istanbul, Turchia
QUANDO: Fine del '500

Un libro strano, particolare, che per certi versi - la lentezza con cui scorre la storia, le lunghe digressioni "tecniche" e storiche, i dialoghi talvolta lenti da seguire - ha richiamato alla mia mente Il Nome della Rosa di Eco.
In entrambi i casi, un delitto efferato (più di uno, a dire il vero, nell'abbazia benedettina) maturato in una cerchia ristretta di individui. In entrambi i casi, l'ambientazione è strettamente legata alla conservazione della cultura: da un  lato gli amanuensi benedettini, dall'altro i miniaturisti al servizio del sultano. In entrambi i casi, un'indagine scandita dai ritmi lenti di un'epoca lontana dalla nostra.
Più o meno tre secoli di distanza tra le due storie, oltre a parecchi chilometri, ma una sorta di atmosfera che li accomuna: cupa, lenta, claustrofobica e asfittica.
Storie di tempi e luoghi lontani, di invidie represse, di sangue, di lunghi dibattiti tecnici che possono- per quanto a noi possa sembrare assurdo - sfociare in violenza.
Nel caso di Eco - non sveliamo troppi dettagli, si tratta pur sempre di un giallo, per quanto di fama amplissima - il dibattito sulla commedia e il riso, che ruota attorno alla Poetica di Aristotele. Nel caso dei miniaturisti di Pamuk, la diatriba su quale sia lo stile migliore da adottare, se quello tradizionale tramandato nei secoli - che prevede la visione del mondo dall'alto, come lo vedrebbe Allah - o quello nuovo importato dagli "infedeli" veneziani, che sposta l'occhio del disegnatore a terra, e adotta l'espediente della prospettiva.
In entrambi i romanzi, lunghe pause di digressioni tecnico-filosofiche che rallentano la storia e talvolta stentano a farne seguire il filo, perlomeno ad un lettore poco "presente".
Per il resto, due storie assolutamente differenti sul piano umano dei protagonisti.
Di Eco, del giovane Adso da Melk e dell'ex inquisitore Guglielmo da Baskerville ho già parlato in una precedente recensione; in questo caso, invece, la storia è quella di Nero, giovane miniaturista innamorato perdutamente fin da ragazzo della bella Sekure, che rientra ad Istanbul dopo dodici anni di assenza trovandola sposata e madre di due amatissimi bambini.
Il marito di lei, però, è disperso in guerra, il che riaccende la speranza di Nero di poterla riconquistare; se non fosse che la stessa speranza infiamma Hasan, fratello del marito scomparso, anch'egli innamorato di Sekure e fortemente intenzionato a farne sua moglie.
In mezzo lei, la bellissima ed indecisa Sekure, che ahimè con la complicità di una vecchia venditrice di corredi - e organizzatrice di incontri più o meno clandestini, e di matrimoni - tiene accese entrambe le fiamme intrattenendo con entrambi una corrispondenza seppure sporadica.
Tutto intorno, una caotica Istanbul, con i suoi viottoli fangosi, i mendicanti coperti di cenci, il profumo delle spezie, i piccoli giardini ombrosi delle case, il succo di amarena a dar refrigerio nelle ore più calde.
Quando poi, la calma confusione di Istanbul viene scossa dall'omicidio di un giovane miniaturista del sultano, l'onda d'urto non può che abbattersi anche sulle loro vite, poichè il padre di Sekure - nonchè zio di Nero- è anch'egli un noto miniaturista ed era per lui che la vittima stava lavorando ad un libro commissionato dal Sultano.
E sarà proprio lui, l'anziano zio Effendi, a chiedere a Nero di fare luce sul delitto in via ufficiosa, indagando ed interrogando gli altri miniaturisti, per dipanare la questione. Manco a dirlo, in nome dell'amore per Sekure, Nero accetta ed entra in punta di piedi in quest'avventura, muovendosi con prudenza tra i miniaturisti e le loro sanguinose invidie covate per anni, cercando di non attirare troppo l'attenzione e cercando di dipanare una matassa più intricata del previsto.
Cosa si nasconde dietro la ferocia dell'assassino, che torna a colpire prima che Nero abbia potuto far luce sull'accaduto?
Un libro non certo semplice - se volete accostarvi a Pamuk, vi consiglio piuttosto questo, già recensito tempo fa - ma che, esattamente come accaduto con il Nome della Rosa, sebbene il ritmo fosse lento e lo stile talvolta contorto, e sebbene le lunghe digressioni tecniche mi facessero perdere un po' il filo, mi ha comunque tenuta incatenata fino all'ultimo con l'atmosfera assolutamente inconsueta.
Un mondo lontano, nuovo, maestosamente malinconico, una città già immensa, fatta di contrasti tra il lusso straordinario del palazzo del Sultano e le strette stradine in cui alloggia il popolo, che di quell'invisibile Sultano vive in devota adorazione. Una terra ed una cultura sconfinata che comincia a scricchiolare sotto l'urto dell'innovazione portata da Occidente, da quei veneziani infedeli che anzichè restarsene a casa propria hanno il viziaccio di viaggiare verso Oriente, portando con sè pericolose deformazioni artistiche, accendendo contrasti che infiammano il dibattito artistico.
Un popolo vivo e vibrante, che si affolla nei mercati intrisi di odori e si disperde tra le viuzze umide, dove le donne scivolano via silenziose avvolte nei loro mantelli, e gli uccelli invisibili cantano fra i rami.
Un viaggio strano, distorto, in una storia dal sapore di sangue, amara, cupa eppure affascinante.
Lontana, questo è certo, dalle rotte conosciute.

UN ASSAGGIO:

"Non mi lamento del fatto che i denti mi siano caduti come ceci nella bocca piena di sangue, nè che il mio volto sia talmente fracassato da essere irriconoscibile, nè di essere rimasto schiacciato in fondo a un pozzo, mi lamento perchè mi credono ancora vivo. Sapere che chi mi vuole bene pensa continuamente a me immaginando che stia perdendo tempo in stupidaggini in qualche angolo di Istanbul, oppure che sia andato dietro a una donna, aumenta il dolore della mia anima inquieta. Basta! Trovate il mio cadavere, seppellitemi e fatemi un funerale con tutte le necessarie preghiere rituali! Ma soprattutto che venga scoperto il mio assassino! Sappiate che finchè non si scopre quel vigliacco, anche se sepolto nella più bella delle tombe, io attenderò girandomi inquieto per la tomba e insinuerò in tutti voi la miscredenza. Trovate quel figlio di puttana del mio assassino e io vi racconterò tutto quello che vedrò nell'aldilà!"

venerdì 6 aprile 2018

JANE AUSTEN - Ragione e Sentimento

DOVE: Tra il Sussex e Londra, Inghilterra
QUANDO: Inizio dell'800.

Rieccomi qui, finalmente, dopo mesi di assenza, nel mio caro, carissimo blogghino (eh sì, continuo a rubare questa espressione di Eva perchè trovo che calzi a pennello per descrivere questo piccolo, caldo spazio virtuale in cui parlare dei miei amatissimi viaggi letterari :-) )
Assenza dovuta, ovviamente, al fatto che al di fuori del blogghino esiste una vita reale e pressante, che spesso reclama le nostre attenzioni.
Nel mio caso, una vita che negli ultimi mesi è stata stravolta - in positivo - dalla scoperta che diventerò di nuovo mamma. Ho aperto questo spazio millenni fa, quando ero una neomamma disoccupata, insicura ed in crisi, con una laurea alle spalle e scoraggiata dalle porte in faccia di numerosi colloqui andati male. Da allora, ne è passata di acqua sotto i ponti. Una separazione, due lavori cambiati, tanta fatica, tanti momenti di sconforto, tante domande ed altrettante "pause" dal mio piccolo spazio sul web. Che però, puntualmente, ho trovato sempre pronto ad attendermi.
E rieccolo qui, il mio blogghino, dopo gli ultimi mesi in cui conciliare il lavoro con un figlio, un nuovo compagno, due micioni, un cane e la stanchezza mostruosa di una seconda gravidanza alla soglia dei quaranta (ahimè, nove anni fa il mio fisico reggeva meglio ^_^ ) si è rivelato più arduo del previsto.
In questi mesi ho letto, sempre e comunque. Fortunatamente, riesco sempre a ritagliare spazio per i miei amati libri. Leggo mentre mi asciugo i capelli, leggo mentre mi depilo, leggo mentre aspetto mio figlio fuori dalla palestra di karate.
Dunque, mi ritrovo ora con una pila disordinata di libri che vorrei commentare e condividere, poco tempo e sempre tanta tanta stanchezza. In ogni caso, da qualche parte dovrò pur cominciare; ed ho scelto di cominciare da qui, da uno degli ultimi che ho letto in ordine cronologico. La mia cara, amata, amatissima Jane Austen, che mi ha tenuto compagnia in tanti pomeriggi del liceo ( che ricordi che ho, dei miei viaggi mentali nella verde Inghilterra di inizio Ottocento, standomene sdraiata nella mia cameretta!) e che ho sentito il bisogno di recuperare adesso. Forse perchè correndo qua e là tra spesa, lavoro, karate, fermata dello scuolabus, pulizie di casa sentivo che lei avrebbe saputo darmi quella boccata di aria di cui avevo bisogno.
Fermati e respira, sembra dirti la zia Jane. Entra, siediti accanto al camino, in un angolo, sorseggia il tuo tè e lascia che io ti racconti una storia.
Tra le tante - manco a dirlo, in quei pigri pomeriggi adolescenziali di cui sopra ho letto TUTTE le sue opere - chissà perchè ho sentito il bisogno di recuperare proprio quella delle sorelle Dashwood, ed eccomi qui, nel verdeggiante Sussex, in un piccolo cottage modesto ma curato, ad ascoltare quello che, a distanza di anni, Jane sembra volermi dire.
Le Dashwood, dunque. La sorella minore, Margaret, lasciata perlopiù in ombra, e le due protagoniste del romanzo: Elinor, la maggiore, lucida, razionale, calma. E Marianne, la seconda, travolgente, passionale, emotiva. Entriamo nelle loro vite di fanciulle di epoca vittoriana, fatta di educazione, di convenzioni più o meno rigide, di visite di cortesia scandite con regolarità quasi scientifica, di sonate al pianoforte, passeggiate sui sentieri placidi delle verdi colline inglesi e della ricerca del vero amore, del matrimionio o di entrambi.
Un mondo apparentemente lontano anni luce dal nostro, fatto talvolta di donne dal taglio frivolo e scialbo - come Fanny, la giovane moglie del fratello delle tre ragazze, o come Lucy Steele, avviluppatasi a Elinor in una sorta di amicizia a senso unico, che la signorina Dashwood ricambia con ferma cortesia.
Eppure, un mondo attuale, sotto certi aspetti che Jane non tarda ad illuminare con la sua caratteristica, pungente ironia: l'ipocrisia di talune forme di ostentata generosità (sarebbe complicato riassumerlo qui in poche righe, vi rimando solo alla già menzionata cognata Fanny, ed alle sue complesse manovre per sottrarre alle tre sorelle del marito la maggior quantità possibile di denaro e di beni, pur continuando a dimostrare a sè stessa di esserne invece una grande benefattrice), l'incostanza delle relazioni umane, la debolezza di carattere che priva alcuni della capacità di imporsi. E poi, le rigide briglie delle convenzioni sociali che, nel 2018, siamo riuscite solo in parte ad allentare, il giudizio del prossimo sempre in agguato, il mito mai tramontato del buon partito, un certo stereotipo di donna che tarda, anch'esso, a tramontare.
In mezzo a tutto questo, si muovono le due protagoniste, entrambe costrette a far fronte ad un amore disilluso, ciascuna coi propri mezzi. La tempestosa Marianne dando sfogo al suo dolore, piangendo lacrime di rabbia fino a sfiancarsi; la razionale Elinor, invece, col silenzio, la calma, l'analisi lucida, la compostezza, l'accettazione masochistica.
Quale delle due avrà ragione? Qual è il modo migliore per affrontare la vita? Prenderla di petto, lasciandosi andare ad entusiasmi smodati e dando sfogo altrettanto violento al dolore?
O affrontarla con distacco, senza mai eccedere nelle emozioni, senza lasciar trasparire all'esterno il proprio dolore?

Ad entrambe, la vita riserverà piccoli colpi di scena e un gran finale, per arrivare al quale però dovranno penare non poco, in un frusciare di vesti e lunghe, lunghissime conversazioni dallo stile talvolta un po' arzigogolato ma dal sapore assolutamente "vintage" che chi, come me, ama la Austen non può non adorare.
E poi, la sorpresa di scoprire che, malgrado nei miei ricordi fosse Marianne il personaggio con cui all'epoca della prima lettura mi identificai, rileggendolo ora sento invece di appartenere più al mondo cauto di Elinor.
Miracoli della lettura, per cui le stesse parole rilette a distanza di venti anni sanno darti emozioni diverse.

UN ASSAGGIO:

"Marianne si sveglio l'indomani tutta lieta. La delusione della sera precedente sembrava dimenticata nell'attesa di quello che poteva capitare quel giorno. Avevano finito da poco la colazione quando la barouche della signora Palmer si fermò alla porta, e pochi minuti dopo ella entrò ridendo nella stanza; così felice di rivedere tutte che non si capiva se traesse maggior piacere dal ritrovarsi con sua madre o con le signorine Dashwood; così sorpresa del loro arrivo in città, quantunque era cosa che si era sempre aspettata; così stizzita che avessero accettato l'invito di sua madre dopo aver declinato il suo ma allo stesso tempo non le avrebbe mai perdonate se non fossero venute!
'Il signor Palmer sarà felice di vedervi' aggiunse 'indovinate un po' che ha detto quando ha saputo che venivate con la mamma? .. Adesso l'ho dimenticato, ma era una cosa tanto buffa!'
Dopo un paio d'ore trascorse in quelle che sua madre chiamava 'quattro chiacchiere fra noi', in altre parole, in ogni specie di domande su tutte le loro conoscenze da parte della signora Jennings, e di risate senza ragione da parte del signor Palmer, quest'ultima propose che andassero tutte insieme in certi negozi dove aveva intenzione di recarsi quella mattina; al che la signora Jennings ed Elinor acconsentirono subito, avendo acquisti da fare anch'esse; e Marianne, dopo un primo rifiuto, fu indotta ad accompagnarle."