lunedì 13 febbraio 2017

PATRICK SUSKIND - Il Piccione

DOVE: Parigi
QUANDO: oggi

Jonathan Noel è un impeccabile ed abitudinario cinquantenne, solitario, orgogliosamente attaccato al suo trententennale impiego come guardia giurata per la banca in rue de Sevres, nonchè puntuale affittuario in una minuscola e soffocante mansarda in rue de la Planche. Tra queste due vie, trascorre una vita la cui ritmata monotonia lo rassicura; soddisfatto di sè stesso e dei piccoli traguardi da lui raggiunti, Jonathan vive serenamente, con un occhio alla pensione ed in testa il piccolo ma soddisfacente progetto di rilevare la camera in cui vive come inquilino diventandone infine proprietario.
Un'esistenza dunque tranquilla, un uomo onesto e preciso anche se un tantino misantropo, con le salde abitudini - a filo della maniacalità - cha scandiscono i tempi di chi è abituato da decenni a vivere da solo. Un uomo che basta a sè stesso, oseremmo dire, e che quotidianamente trova soddisfazione ed appagamento nel compiere bene il suo lavoro: ritto sugli scalini di fronte alla banca, ben saldo sulle gambe, studiatamente statuario e rassicurante, salvo poi scattare puntualmente ad aprire il cancello all'approssimarsi della limousine di monsieur Roedel, il direttore della banca. Un lieve cenno di saluto, appena accennato, e poi di nuovo, ritto come una sfinge sui gradini della banca fino all'orario di chiusura.Giorno dopo giorno, anno dopo anno, con la pioggia, o il sole, o il vento che strapazza le cartacce lungo la strada, tra i tavolini del caffè di fronte. Potrebbe mai qualcosa perturbare la solida calma della sua esistenza? Ahimè, potrebbe eccome.
Ed accade all'improvviso, quando una mattina, nel tranquillo rituale dei suoi preparativi, Jonathan si imbatte in un piccione.
Entrato chissà come - forse attraverso una finestra lasciata aperta - il piccione dall'aspetto malandato è proprio lì, di fronte alla sua porta, immobile, e lo fissa con un occhio quieto e rotondo, da piccione.
E qualcosa, nella solida affidabile esistenza di Jonathan, a quel punto si incrina. 
Un viaggio assolutamente sui generis, questo. Perchè sì, siamo a Parigi, nella tranquilla esistenza di una guardia giurata che a piedi si muove dalla sua minuscola mansarda in rue de la Planche ai gradini della banca in rue de Sevres; ma il viaggio - quello vero - attraverso cui ci guida Suskind, è quello all'interno della mente di un uomo. Un uomo qualunque, con il suo lavoro e le sue certezze, che improvvisamente, inaspettatamente, si ritrova imbrigliato da qualcosa - fobia, attacco di panico, o le due cose insieme - che finisce per sgretolare la tranquillità della sua routine, scaraventandolo in un vortice di pensieri che, come una valanga, trascinano con sè tutto ciò che toccano, ingigantendo sempre più la morsa che lo imprigiona. Un uomo che perde gradualmente sicurezza, fiducia in sè stesso e inevitabilmente attira su di sè piccoli contrattempi che alimentano a loro volta la spirale di insicurezza.
Il lavoro, la prospettiva di una pensione dignitosa, l'impeccabile professionalità con cui per oltre vent'anni si era sempre presentato puntuale, perfino la postura statuaria con la quale abitualmente affrontava il suo lavoro, tutto spezzato in mille frantumi. Il solido, affidabile Jonathan, scoprendosi prigioniero della sua paura, va in pezzi per lo sguardo di un piccione.
Che ne sarà, adesso, di Jonathan? Riuscirà a riprendere il timone della sua esistenza, riprendendo il controllo dei pensieri e superando il momento di crisi? O si lascerà sprofondare, andando alla deriva proprio quando era ad un passo dalla realizzazione dei suoi - seppur modesti - desideri?
Una storia particolare, introspettiva, che getta un fascio di luce sui momenti oscuri della nostra anima, quando cadiamo preda del panico, e vediamo sfuggirci via tra le dita tutto ciò che abbiamo costruito.


UN ASSAGGIO:

"Era sceso sul gradino più basso della scala di marmo, la risalì e cercò di riassumere la sua posizione. Si accorse subito che non ci riusciva. Le spalle non volevano più star dritte, le braccia gli penzolavano lungo la cucitura dei pantaloni. Sapeva che in quel momento dava un miserabile spettacolo di sè, e non poteva farci nulla. con muta disperazione fissò il marciapiede, la strada, il caffè dirimpetto. Il tremolio dell'aria era scomparso. Le cose erano di nuovo al loro posto, le linee erano dritte, il mondo si stagliava chiaro di fronte ai suoi occhi. Sentiva il fragore del traffico, il cigolio delle porte degli autobus, le grida dei camerieri dal caffè, il ticchettio dei tacchi delle donne. Nè la sua facoltà visiva nè il suo udito erano lesi. Ma il sudore gli scorreva a fiotti dalla fronte. Si sentiva debole. Si girò, salì sul secondo gradino, salì sul terso gradino e si nascose nell'ombra contro la colonna accanto alla porta esterna. Incrociò le mani dietro la schiena in modo da toccare la colonna. Poi si lasciò scivolare lentamente all'indietro, contro le proprie mani e contro la colonna e vi si appoggiò, per la prima volta nei suoi trent'anni di servizio."

mercoledì 1 febbraio 2017

KATHERINE PANCOL - Gli occhi gialli dei coccodrilli

DOVE: Courbevoie, perferia di Parigi
QUANDO: oggi

Massiccio ma scorrevole, "Gli occhi gialli dei coccodrilli" è stata una piacevole scoperta. Premetto e ammetto che, con il progredire dell'età, storco sempre un po' il naso quando, nel terminare un libro, tutto è andato per il verso giusto, scorrendo verso un prevedibile lieto fine nel quale i pezzi combaciano tutti alla perfezione.
 Ed ammetto anche che, dalla prima all'ultima pagina, ho provato una profonda antipatia per quasi tutti i personaggi del libro, in primis per la goffa protagonista Josephine, mamma imbranata e fresca di separazione alle prese con i conti di fine mese da far quadrare e due figlie per versi differenti impegnative da far crescere.
Eppure, nel complesso, è stato un viaggio brioso e gradevole in un piccolo scorcio della Parigi odierna, tra la periferia caotica ed il centro patinato, nella vita di due sorelle agli antipodi.
Josephine, appunto, per vocazione brutto anatroccolo: insicura, timida, impacciata, apparentemente priva di midolllo spinale, incline al piagnisteo, eppure brillante ricercatrice universitaria specializzata nella storia medievale. Un marito disoccupato trasferitosi poi in Africa in cerca di fortuna come allevatore di coccodrilli assieme alla sua giovane amante Mylene. Due figlie, Zoè ed Hortense; la prima piccola ed immatura, la seconda ambiziosa e furba.
E, dall'altra parte, sua sorella Iris, ex sceneggiatrice divenuta poi casalinga extralusso dopo l'invidiatissimo matrimonio con Philippe Dupin, uomo d'affari e padre di suo figlio Alexandre; una casa in un quartiere esclusivo, una fida cameriera personale, lunghi pomeriggi di shopping griffatissimo, pranzi rigorosamente light in ristoranti stellati assieme alla pseudo-amica Berengere.
Tra le due sorelle, Henriette Grobz, la loro filiforme ed austera madre, rigidissima, anaffettiva, con una spiccata predilezione per la bella Iris e per la sua vita lussuosa, frutto di una fortunata ed oculatissima scelta del partner.
Da qui, l'avvio di un intreccio complesso, in cui le due sorelle si legano in un silenzioso accordo nato dal capriccio di Iris, che decide di ammazzare la monotonia del lusso in cui ozia inventandosi una carriera di scrittrice. Ma da dove iniziare, se di scrivere non ha nè il tempo nè la voglia? Semplice: convincendo la sua malleabile sorella Jo, bisognosa di denaro come non mai, a farle da ghost writer, dividendo poi i compensi e lasciando naturalmente ad Iris, bellissima ed esibizionista, onere ed onore delle luci della ribalta.
Un romanzo dallo stile avvolgente e morbido, in cui si parla di mutamenti e di reazione agli eventi, di chi reagisce e chi si lascia andare, di amore vero e di sottomissione, il tutto sullo sfondo suggestivo di una Parigi distaccata, affascinante, spumeggiante di lusso e di vita.
Un intreccio di amori, amanti, piccoli-grandi segreti, amicizia e solitudine, piacevole come una corsa in taxi attraverso le bellezze della Ville Lumiere.
Tutto sommato gradevole, malgrado -come ho scritto - tutto finisca per filare fin troppo liscio, in conclusione. Ma forse sono io che in questa fase della mia vita (che mi stia trasformando in Malefica, la strega della Bella Addormentata? ^_^ ) ho un po' di rifiuto per i lieto fine....

UN ASSAGGIO:

"Josephine riagganciò e procedette incerta fino al balcone. Aveva preso l'abitudine di rifugiarsi lì. Dal balcone, contemplava le stelle. Interpretava un luccichio o il passaggio di una stella cadente come un segno che qualcuno la ascoltava, che il cielo vegliava su di lei. Quella sera, si inginocchiò sul cemento, congiunse le mani e, alzando gli occhi al cielo, recitò una preghiera: "stelle, per favore, fate che io non sia più sola, che non sia più povera, fate che io non sia più assillata dalla sorte. Sono stanca, così stanca... Stelle, da sola non si combina niente di buono, e io sono così sola. Datemi la pace e la forza interiore, datemi l'uomo che aspetto in segreto. Alto o piccolo, ricco o povero, bello o brutto, giovane o vecchio: non ha importanza per me. Datemi un uomo che mi amerà, e io lo amerò. Se è triste, lo farò ridere; se è insicuro, lo rassicurerò; se si batte, sarò al suo fianco. Non vi chiedo l'impossibile. vi chiedo semplicemente un uomo, perchè vedete, stelle, l'amore è la più grande ricchezza che c'è...."